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Quale scuola per il dopo-virus

Dibattito Ripensare Gli Ordinamenti Scolastici: Quale scuola per il dopo-virus

di Orazio Niceforo

(per accedere all’articolo che ha avviato il dibattito cliccare QUI )

L’articolo di Benadusi e Campione pubblicato nel n.1/2020 di Scuola democratica “Ripensare gli ordinamenti scolastici e in particolare la secondaria” esordisce con una osservazione che non si può non condividere: è dai tempi delle riforme Gelmini (2008-2010), volte peraltro a razionalizzare e tagliare più che a riformare, che la questione degli ordinamenti scolastici è sparita dall’agenda politica italiana. Anche la legge 107/2015 (Buona Scuola) non si è posta in alcun modo il problema, avendo puntato tutte le sue carte sul modello organizzativo e sulla gestione del personale ma lasciando gli ordinamenti invariati.

Il comma 1 della 107 in effetti elenca una serie di finalità di notevole rilievo politico e pedagogico il cui conseguimento è affidato però non alla riforma degli ordinamenti ma alla “piena attuazione (dell’)autonomia delle istituzioni scolastiche“:

– affermare il ruolo centrale della scuola nella società della conoscenza;

– innalzare i livelli di istruzione e le competenze delle studentesse e degli studenti, rispettandone i tempi e gli stili di apprendimento;

– contrastare le diseguaglianze socio-culturali e territoriali;

– prevenire e recuperare l’abbandono e la dispersione scolastica;

– realizzare una scuola aperta, quale laboratorio permanente di ricerca, sperimentazione e innovazione didattica, di partecipazione e di educazione alla cittadinanza attiva;

– garantire il diritto allo studio, le pari opportunità di successo formativo e di istruzione permanente dei cittadini.

Nessuna di queste finalità è stata conseguita e neppure avvicinata, come ricordano le cifre richiamate nella prima parte dell’articolo di Benadusi e Campione, anche a causa del fallimento del modello decisionista della Buona Scuola, che anticipava per molti aspetti (governabilità con verticalizzazione delle funzioni di gestione emblematicamente concentrate sulla figura del preside, enfasi sulla dimensione normativa, disintermediazione con marginalizzazione dei sindacati) quello della ‘Grande riforma’ renziana, rappresentata dalla riforma della Costituzione e del sistema elettorale in senso fortemente maggioritario1.

La logica top-down della Buona Scuola è stata respinta non tanto dai sindacati della scuola quanto dagli stessi insegnanti, il cui coinvolgimento attivo sarebbe stato indispensabile per cercare di realizzare le impegnative finalità sopra indicate. L’opposizione dei sindacati agli aspetti dirigistici e a-sindacali della riforma, e la mancanza tra gli insegnanti di un forte associazionismo professionale in grado di negoziare e gestire in prima persona le condizioni di fattibilità dei profondi cambiamenti indicati dal comma 1 della legge2, ne hanno vanificato le potenzialità innovative conducendo a una situazione di sostanziale stallo. Per uscire dal quale, propone l’articolo, sarebbe necessario un profondo “ripensamento” della struttura degli ordinamenti scolastici, finalizzato all’aumento dell’equità del sistema educativo.

Proverò a discutere la validità di questo assunto alla luce del dibattito sulla scuola sviluppatosi negli ultimi mesi anche a seguito del diffondersi dell’epidemia di Coronavirus (Covid-19), e riportando qui alcune considerazioni e proposte che ho avuto modo di sviluppare collaborando con le newsletter settimanali, i dossier tematici e il sito di Tuttoscuola.

Un dibattito che non decolla   Da qualche mese si parla molto di scuola sui giornali e nei social, ma non si riesce ad alzare lo sguardo oltre l’emergenza da Coronavirus: quella di stretta attualità, legata alla conclusione dell’anno scolastico 2019-2020 e agli esami di maturità e di licenza media, e quella a breve termine, che riguarda le condizioni della ripresa delle attività didattiche a settembre 2020.

Il dibattito sul ruolo strategico, e sullo stesso destino, del nostro sistema educativo, non decolla, come ha dimostrato lo scarso interesse suscitato dall’appello alla ‘classe dirigente’, a partire dagli imprenditori, a investire nel ‘capitale umano’ lanciato dall’ex direttore del Corriere della Sera, Ferruccio De Bortoli3. Anche il dibattito sul ruolo delle tecnologie a sostegno di una didattica rinnovata nei luoghi e nei tempi dell’apprendimento, positivamente avviatosi nelle prime settimane di pandemia attorno ad alcune esperienze avanzate di didattica a distanza (DaD), ha ceduto il passo alla diffusa voglia di ‘normalità’, trovando in Asor Rosa l’alfiere dell’insostituibilità della ‘classe’ e della tradizionale didattica in presenza4.

I sindacati, che in altri momenti della loro storia (150 ore, gestione sociale della scuola) avevano svolto un ruolo di avanguardie dell’innovazione, si sono progressivamente chiusi nella ordinaria amministrazione, nella ricorrente stabilizzazione di generazioni di precari e nella difesa di uno stato giuridico forse garantista ma costantemente appiattito su un mediocre ugualitarismo. Forse non saranno i maggiori “responsabili della dequalificazione della figura dell’insegnante“, come ha scritto Galli della Loggia nel citato articolo, ma hanno contribuito alla sua ingessatura, per usare un’immagine di Luisa Ribolzi, operando di fatto in senso conservatore.

Se la classe dirigente italiana nel suo complesso (imprenditori, top manager, ma anche intellettuali, opinion leader e vertici delle grandi associazioni sindacali e professionali) mostra di non essere pronta a investire sulla scuola in termini strategici (non lo ha fatto neanche il gruppo che ha lavorato con Vittorio Colao5) diventa sempre più plausibile che tra i tre scenari disegnati dall’OCSE già all’inizio del secolo, ma tuttora in campo – la descolarizzazione (la scuola sostituita dalla rete), la riscolarizzazione (riforme) e la conservazione dello status quo – finisca per prevalere quest’ultima. Un destino di lenta decadenza per la scuola italiana, fatta di sopravvivenza inerziale e di inerzia decisionale, è la previsione pessimista contenuta in due importanti saggi usciti nel 2019, L’aula vuota di Galli della Loggia6 e La società signorile di massa di Luca Ricolfi7.

Ma non si tratta di un destino inesorabile, perché non mancano progetti di riforma che puntano decisamente sul secondo scenario, quello della ri-scolarizzazione, come quelli delineati da Scuola democratica e da Tuttoscuola. E va notato che dal mondo della scuola, come si è visto in questi mesi, giungono importanti segnali sia di resilienza e capacità di adattamento sia di disponibilità all’innovazione che i decisori politici sbaglierebbero (ancora una volta) a non cogliere per mettere in cantiere un organico progetto di ri-scolarizzazione, l’unica alternativa agli altri due scenari – la descolarizzazione e la lenta implosione – che segnerebbero la fine non dell’educazione, che continuerebbe con altre modalità, ma certamente della scuola come istituzione, quella che abbiamo conosciuto negli ultimi tre secoli.

L’equità come bussola   A me sembra che l’aspetto più convincente del progetto di Scuola democratica non sia tanto il riordino dei cicli (che viene pragmaticamente proposto con tre diverse scansioni) quanto l’idea di ripensare in termini unitari e di forte coerenza verticale il percorso educativo dai 3 ai 16 anni: è questa idea guida – la costruzione di un asse culturale condiviso tra tutti gli alunni dai 3 ai 16 anni – la variabile indipendente che ricorre nelle tre ipotesi di scansione. La prima tuttavia, quella dei 6 sub-cicli (tre anni di scuola dell’infanzia; i primi due anni della primaria; i secondi due anni; il quinto anno insieme al primo della secondaria inferiore; l’attuale secondo e terzo anno della secondaria inferiore; il primo biennio della secondaria superiore), appare più coerente con l’impianto generale della proposta rispetto alle altre due (3 sub-cicli: 3+5+5 anni di scuola media con esame finale e 4 sub-cicli, l’ipotesi più continuista: 3+5+3+2, sempre con esame a 16 anni di età, alla fine di 13 anni di frequenza).

Il riferimento internazionale è ai modelli europei di scuola comprensiva fino ai 16 anni (adottati in Estonia, Finlandia, Irlanda, Polonia e Svezia) che l’OCSE segnala come i più efficaci nel perseguimento dell’equità intesa come riduzione delle disuguaglianze e innalzamento del livello medio delle performance in lettura, matematica e scienze.

Si tratta di una riproposizione del monoblocco curricolare fino ai 16 anni (con biennio 14-16 unico, e non “unitario”) teorizzato negli anni settanta dello scorso secolo dalle componenti più radicali dei movimenti post-sessantottini (e applicato dai governi comunisti di alcuni Paesi dell’Est europeo)? No, precisa la proposta di Scuola democratica, perché numerosi studi hanno dimostrato nel tempo che “ l’early tracking, nè l’uniformità sono le soluzioni strutturali più efficaci“. Aggiungerei che già allora Aldo Visalberghi giudicò negativamente il biennio unico per ragioni psico-pedagogiche oltre che politiche (il carattere oppressivo di un modello che impediva ai giovani di orientarsi tra diverse opzioni). Per questo nell’articolo si preferisce parlare di impostazione “neo-comprensiva” e di “integrazione individualizzata”, da costruire attorno a uno “zoccolo comune di competenze”.

Tale zoccolo comune (core curriculum) comprenderebbe italiano, inglese, storia, matematica, scienze, tecnologia, geografia e scienze economico-sociali, nonché l’educazione alla cittadinanza come attività trasversale, e l’educazione fisica, e sarebbe affiancato da un’”area curricolare differenziata” che includerebbe “attività di vario tipo, anche interdisciplinari, a cominciare da quelle artistiche e musicali che avrebbero un posizionamento privilegiato rispetto alle altre” nonché “due tipi di moduli inerenti al core curriculum: a) di recupero, obbligatori per gli studenti in ritardo; b) di potenziamento a frequenza facoltativa“, in entrambi i casi con la formazione di gruppi a classi aperte. Nella fascia 14-16 anni, da sempre la più problematica (Benadusi e Niceforo, 2010) si prevedono infine alcuni insegnamenti o attività opzionali con funzioni di orientamento alle scelte successive.

La predisposizione di moduli obbligatori di recupero per gli studenti in ritardo fa chiaramente intendere che la strategia didattica alla quale si ispira la proposta di SD è quella della individualizzazione (adattamento sistematico dei tempi di apprendimento e delle modalità di insegnamento alle caratteristiche dei singoli alunni fermo restando il conseguimento di traguardi formativi comuni) e non quella della personalizzazione degli itinerari, che implicherebbe la costruzione e diversificazione dei percorsi individuali sulla base delle attitudini e delle potenzialità di ciascuno studente8.

A questa seconda strategia si ispira invece la proposta di Tuttoscuola, costruita a partire dalle analisi presentate nel dossier “La scuola colabrodo” (settembre 2018), che è in sintesi quella di eliminare qualunque forma di esclusione dal circuito scolastico e formativo fino ai 18 anni (termine degli studi secondari, da accorciare di un anno), da realizzare attraverso la personalizzazione degli itinerari educativi individuali, l’eliminazione degli standard, e la sostituzione dei diplomi con la certificazione delle competenze. Se nella proposta di SD la parola chiave è equità, in quella di Tuttoscuola è inclusione9.

Due proposte che potrebbero trovare un punto di incontro nella definizione di un core curriculum ristretto, limitato cioè a un nucleo essenziale di saperi e competenze (linguistiche, logico-matematiche e tecnologiche), da acquisire a un livello minimo predefinito di padronanza, e dunque anche con la previsione dei moduli di recupero proposti da SD fino ai 16 anni di età degli studenti, ma rimettendo lo studio delle altre discipline e attività alla loro libera scelta già a partire dall’ultimo anno della scuola primaria.

Una ipotesi di lavoro di questo genere permetterebbe di assicurare una soglia minima di apprendimenti e competenze da garantire a tutti nello scenario della personalizzazione inclusiva senza bocciature delineato da Tuttoscuola, e di evitare il sovraccarico curricolare che nella strategia didattica di individualizzazione prospettato da Scuola democratica deriverebbe dalla applicazione dei moduli di recupero a tutte le discipline dello “zoccolo comune” soprattutto nella fascia dai 12 ai 16 anni.

Una ipotesi di questo tipo implicherebbe comunque una precisa scelta di politica scolastica da parte del Parlamento e del governo, assai improbabile nell’attuale quadro politico. Una alternativa allo stallo normativo potrebbe maturare dal basso, per via sperimentale, se solo le scuole fossero messe in grado di utilizzare pienamente la loro autonomia per realizzare davvero le finalità di cui al comma 1 della Buona Scuola10. Basterebbe applicare alle scuole una delle regole fondamentali delle società aperte e della cultura liberaldemocratica: tutto ciò che non è vietato è permesso. L’esito sarebbe rivoluzionario in un Paese e in una scuola come la nostra, abituata a considerare vietato tutto ciò che non è regolamentato.

Riferimenti

Baldacci M. (2008), Una scuola a misura d’alunno, UTET Università, Torino.

Benadusi L., Niceforo O. (2010), Obbligo Scolastico o di Istruzione, FGA Working Paper n. 27

Galli della Loggia E. (2019), L’aula vuota, Marsilio, Venezia

Niceforo O. (2018), Da Gelmini a Fedeli. Scuola e politica dal 2011 al 2017, UniversItalia, Roma

Niceforo O. (2020), Quando educare conviene: il costo del fallimento educativo, in “Rivista di Scienze dell’educazione” n. 1/2020

Ricolfi L. (2019), La società signorile di massa, La Nave di Teseo, Milano

Tuttoscuola (2018) La scuola colabrodo, Editoriale Tuttoscuola, Roma

1 La bocciatura della riforma costituzionale nel referendum del 4 dicembre 2016, col ripristino del bicameralismo perfetto, e di una parte significativa della riforma elettorale ‘Italicum’, con l’eliminazione del ballottaggio da parte della Corte costituzionale decisa con la sentenza del 25 gennaio 2017, hanno segnato con ogni probabilità il tramonto (o comunque il rinvio a tempo indeterminato) dei tentativi di aumentare per via istituzionale la governabilità del nostro Paese a scapito della rappresentatività, su base sostanzialmente proporzionale, delle diverse forze politiche (Niceforo, 2018).

2 Sulla debolezza dell’associazionismo professionale degli insegnanti italiani è tornato recentemente E. Galli della Loggia in un articolo pubblicato sul Corriere della Sera (4 giugno 2020) intitolato “Gli insegnanti prigionieri dei sindacati della scuola“.

4 Asor Rosa A., Elogio della classe, in Repubblica, 7 maggio 2020. Un mio commento qui.

5 Le proposte sull’istruzione, inserite in uno dei 6 ‘macrosettori’ nei quali è articolato il piano, puntano tutte sull’upskilling, come mostra bene l’elenco che riguarda le scuole secondarie superiori:

“a. Disegno di percorsi didattici sperimentali su competenze e skill critiche (capacità digitali, STEM, problem-solving), differenziati per complessità e pensati per un utilizzo combinato di lezioni in aula e su piattaforma digitale. Per massimizzare l’efficacia di questi percorsi, la fase di disegno verrà gestita attraverso coprogettazione e coinvolgimento degli insegnanti.

b. Sperimentazione dei percorsi formativi disegnati su una selezione di classi con gli insegnanti che hanno aderito al pilota e partecipato alla realizzazione dei corsi.

c. Lancio a scala tenendo conto dei diversi bisogni dei destinatari e del contesto, unitamente all’analisi dei fabbisogni formativi degli insegnanti (ad esempio attraverso questionari ad hoc) e dei livelli di competenza degli studenti (analisi multilivello dei dati Invalsi).

d. Monitoraggio e miglioramento continuo dell’offerta didattica sulla base di feedback e risultati nei test standardizzati internazionali (ad esempio PISA)”.

Per finanziare e realizzare queste idee (altre riguardano l’università e la ricerca) il piano Colao suggerisce al governo di promuovere “una campagna di volontariato che affianchi le strutture pubbliche (ovviamente senza sostituirle) nel supporto della formazione“: un esplicito appello ai privati e al privato sociale per riforme di taglio tecnocratico che rischia di essere accolta dagli insegnanti come un’indebita interferenza del mondo aziendale sulla loro professionalità. Se saranno adottate queste proposte dovranno essere riformulate in modo da assegnare un ruolo più attivo alla scuola e ai suoi insegnanti.

6Galli della Loggia E., L’aula vuota, Marsilio, 2019.

7 Ricolfi, L., La società signorile di massa, La nave di Teseo, 2019.Secondo Ricolfiall’origine dell’attuale condizione della società italiana, nella quale “molti consumano e pochi producono” sta la “distruzione di scuola e università”, iniziata con l’unificazione della scuola media (1962) e la liberalizzazione degli accessi universitari (1969). Una mia recensione qui.

8 Si accoglie qui la distinzione, proposta con chiarezza da Massimo Baldacci in Una scuola a misura d’alunno (2008), tra individualizzazione, definita come “quella famiglia di strategie didattiche il cui scopo è quello di garantire a tutti gli studenti il raggiungimento delle competenze fondamentali del curricolo, attraverso la diversificazione dei percorsi di insegnamento“, e personalizzazione, che fa riferimento a “quella famiglia di strategie didattiche la cui finalità è quella di assicurare ad ogni studente una propria forma di eccellenza cognitiva, attraverso possibilità elettive di coltivare le proprie potenzialità intellettive“.

9 Sui vantaggi anche economici che deriverebbero dalla radicale eliminazione della dispersione si può vedere un mio articolo pubblicato nel numero 1/2020 della Rivista di Scienze dell’educazione col titolo “Quando educare conviene: il costo del fallimento educativo”.

10 Legge 13 luglio 2015 n. 107, comma 1. “Per affermare il ruolo centrale della scuola nella società della conoscenza e innalzare i livelli di istruzione e le competenze delle studentesse e degli studenti, rispettandone i tempi e gli stili di apprendimento, per contrastare le diseguaglianze socio-culturali e territoriali, per prevenire e recuperare l’abbandono e la dispersione scolastica, in coerenza con il profilo educativo, culturale e professionale dei diversi gradi di istruzione, per realizzare una scuola aperta, quale laboratorio permanente di ricerca, sperimentazione e innovazione didattica, di partecipazione e di educazione alla cittadinanza attiva, per garantire il diritto allo studio, le pari opportunità di successo formativo e di istruzione permanente dei cittadini, la presente legge da’ piena attuazione all’autonomia delle istituzioni scolastiche di cui all’articolo 21 della legge 15 marzo 1997, n. 59, e successive modificazioni, anche in relazione alla dotazione finanziaria.”

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Scuola democratica
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