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L’editoria scolastica come questione politica

L’editoria scolastica è uno dei gangli vitali del sistema educativo, eppure da anni rimane ai margini del dibattito pubblico. Questo campo economico e di produzione culturale è solo apparentemente di natura tecnica e neutrale. In realtà, è lo spazio nel quale si sistematizza e si legittima la conoscenza scolastica, certificandola e rendendola accessibile. Parlare di libri di testo e piattaforme digitali significa dunque interrogare le forme di potere eteronomo – economiche, simboliche e culturali – che attraversano la scuola.
Questo intervento prende spunto dal recente Rapporto preliminare IC57 dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. Si tratta di un rapporto molto interessante e circostanziato che apre uno squarcio su questo sistema. Ne emerge la fotografia netta di un panorama in cui pochi grandi editori controllano la quasi totalità del mercato. In questo quadro, la transizione digitale è rimasta largamente incompiuta, la spesa per le famiglie continua a crescere, mentre il mercato dell’usato e del riuso è marginale. In definitiva, la promessa di innovazione si è tradotta in piattaforme chiuse e dispositivi vincolanti.
Ma l’aspetto più interessante del rapporto è forse quello meno centrale: la sezione dedicata alle OER (Open Educational Resources) e alle autoproduzioni scolastiche. In questa parte si intravede una via alternativa, un modo per riaprire spazi di libertà, concorrenza e creatività dentro la scuola.


Un nuovo modello di produzione editoriale

Nella prospettiva che ho tracciato in questo blog – quella di una forma radicale di autonomia scolastica – dobbiamo immaginare e progettare una nuova forma di produzione editoriale pubblica e cooperativa, in cui gli insegnanti, le scuole e le reti professionali non siano più solo consumatori di conoscenza, ma autori e co-produttori di contenuti didattici.
La legge già lo consente (art. 6 L. 128/2013; Piano Nazionale Scuola Digitale, Azione #23), ma serve un salto politico e culturale. Innanzitutto, occorre investire su piattaforme aperte e interoperabili; dall’altra, bisogna sostenere finanziariamente modelli di collaborazione tra scuole, università ed editoria che rendano la produzione del sapere un processo collettivo e democratico.
In questo quadro, l’autonomia scolastica supera la mera dimensione amministrativa per assurgere a principio epistemologico. Si tratta di affermare che la scuola è capace di generare sapere, di costruire strumenti adeguati ai propri fini, di tradurre la cultura in pratiche educative concrete.
Un sistema editoriale aperto e partecipativo può essere alla base di un modello nuovo e rivoluzionario di autonomia, attribuendo alla scuola il compito di decidere come e cosa insegnare, di aggiornare continuamente i propri materiali e di adattarli ai contesti e alle diversità reali degli studenti.

L’insegnante come intellettuale e produttore di sapere
Al centro di questo modello c’è la figura della scuola – e dunque degli insegnanti – come intellettuale collettivo. Gli insegnanti non dovrebbero essere solo meri interpreti di programmi o fruitori di risorse prodotte altrove, ma soggetti capaci di analisi, invenzione e scrittura.
La produzione di contenuti, l’elaborazione di materiali, la costruzione di percorsi digitali non significano solo aggiornarsi: significano esercitare una forma di autonomia cognitiva.
In questa prospettiva, quale deve essere il ruolo dell’aggiornamento (ovvero della formazione in servizio) dei docenti? In che modo la formazione tecnologica, contenutistica e didattica può trasformarsi da obbligo burocratico in momento di riappropriazione del mestiere?
Imparare a usare gli strumenti per costruire sapere in modo partecipato e critico ci rimanda alla teoria delle comunità di pratica. L’innovazione, come la ricerca, nasce dal confronto tra pari, dal racconto delle esperienze, dalla costruzione di un linguaggio comune. Soprattutto, solo gli apprendimenti situati diventano operativi e si integrano organicamente nella cultura professionale dei docenti.
Le evidenze della ricerca (link) ci hanno insegnato che nessuna piattaforma, per quanto avanzata, può funzionare senza un’infrastruttura sociale di condivisione e riconoscimento. Le vere innovazioni didattiche nascono quando gli insegnanti si incontrano, si osservano, si scambiano materiali, discutono insieme su ciò che funziona e ciò che no (vedi Innovare a Scuola).
Queste reti di docenti – formali o informali – sono le vere fabbriche del sapere scolastico. In definitiva, una politica editoriale aperta dovrebbe sostenere queste reti, riconoscerle come infrastrutture della professionalità docente, come laboratorio permanente di cultura e di democrazia.

Una politica del sapere per la scuola

In fondo, la questione dell’editoria scolastica tocca un nodo più profondo, che pone questa domanda: chi ha il diritto di produrre sapere nella scuola pubblica?
Oggi l’editoria concentra potere e linguaggi, definisce ciò che è legittimo insegnare, riduce la complessità in apparati standardizzati. Riaprire questo spazio significa restituire alla scuola la sua funzione costitutiva: formare cittadini, creare conoscenza, non soltanto riprodurla.
Una scuola che produce i propri strumenti è una scuola più libera, più riflessiva e più giusta. Non si tratta di sostituire il mercato, ma di ricostruire un equilibrio tra potere economico e autonomia educativa, tra piattaforme e comunità, tra algoritmi e intelligenze professionali.
Solo così la transizione digitale potrà diventare un processo realmente democratico, radicato nella cultura viva dell’insegnamento. 

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