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Ricordo di Geno Pampaloni a vent’anni dalla sua morte

Ricordo di Geno Pampaloni a vent’anni dalla sua morte

di Paola Benadusi Marzocca

Geno Pampaloni era un grande critico letterario ed anche un raffinato scrittore. Aveva scoperto la sua vocazione fin da giovane. Quando con mio padre, Giancarlo Benadusi, combattevano nell’esercito di liberazione e avevano poco più di vent’anni, già allora, mi raccontava il babbo, Geno annotava i suoi commenti su tutti i libri che riusciva a leggere e in qualche modo colpivano la sua attenzione. Una sorta di schedario, come più tardi con le sue ricette di cucina. Era bravissimo infatti anche nel preparare rapidamente squisiti manicaretti.

Era un uomo dedito alla molteplicità dell’esistenza, ma senza fragore, senza richiedere un pubblico, con riservatezza, con sereno distacco. Era un uomo libero, leggeva molti libri, era il suo mestiere, ma immerso com’era nella vita dove ne trovasse il tempo non si sa. Con i libri non aveva appuntamenti fugaci. A casa sua la biblioteca contò sempre più della dispensa e della cantina anche se non rinunciava a niente. Il suo amore per la pagina scritta era vero, e mirava sia alla sostanza che alla forma. Sfuggiva a tutto ciò che incarnava credenze ideologiche, preconcetti, tutto ciò che oggi si chiama “politicamente corretto”. Era un ribelle, con un profondo senso della religiosità della vita.

Mi raccontò una volta che prima di iniziare la sua attività di manager con Adriano Olivetti, questi lo sottopose a una sorta di esame sulle “virtù” umane”, bravura, rapidità di comprendere, intelligenza… “, Geno aggiunse “la grazia” e fu subito assunto e divenne un suo stretto collaboratore.

“L’istinto utopico di Olivetti, con la sua idea di una città del futuro, influenzò la sensibilità di Pampaloni”, come ha scritto Pietro Citati.

Nel grigiore del mondo capitalistico italiano, Olivetti non riscosse una grande popolarità. Geno lo stimava moltissimo ritenendo che “la sua vocazione di utopista- sociale” lo avesse portato “a investigare sulla crisi delle società moderne e ad elaborare una dottrina politico-sociale sull’idea della “comunità” come nuova cellula sociale organica.”

Come Adriano Olivetti, egli aveva scorto lucidamente fin da allora “la crisi del rapporto società civile e istituzioni, le deficienze e i pericoli insiti nella partitocrazia, l’ottusità del centralismo burocratico.”

I miei lontanissimi ricordi di Geno Pampaloni si fermano a un giorno di giugno degli anni Cinquanta quando venne a trovarci a Poppi. Quel mattino il babbo mi disse che sarebbe venuto a pranzo un suo carissimo amico. “Vedi di salutarlo e comportati educatamente, è stato lui a scegliere il tuo nome”. “Perché l’hai fatto scegliere a lui? Che cosa fa?” gli risposi mentre sistemavo le matite appena comprate dal cartolaio. “E’ stato un mio compagno di guerra, poi è diventato un letterato” mi disse il babbo.

Devo riconoscere che quando arrivò ero molto curiosa e un po’ preoccupata. Essendo timida temevo di non riuscire neppure a salutarlo. Ma quando Geno entrò in casa, mi abbracciò e fu molto affettuoso, così le cose cominciarono bene e mi sentii più tranquilla. Era grosso e mentre sorrideva gli occhi piccoli dietro gli spessi occhiali, appesantiti da palpebre grevi, si illuminavano. Non lo trovai bello, ma mirabilmente brutto perché sentivo che emanava una sua luminosa bellezza spirituale. Sicuramente mi colpì.

Dopo, crescendo, tante volte l’ ho incontrato con la sua famiglia e soprattutto con i suoi figli Lorenza e Duccio abbiamo giocato nel bel giardino di Bagno a Ripoli nella villa dove vivevano. C’era anche Pietro, biondo e ricciuto ancora piccolo. E a volte venivano a casa nostra a Poppi ed erano giornate per noi bambini di festa e di allegria.

In seguito, mentre finivo l’università a Firenze abitai da loro.

In privato era affabile, ospitale e generoso. Guai tuttavia a non impegnarsi, a non rispettare la buona educazione. Anche se non alzava mai la voce, era di temperamento collerico, come a volte sono le persone più amabili e amava gli animali. Nella grande e calda cucina dove la sera ci ritrovavamo a cena, sul ripiano della credenza c’era la gabbia di un criceto rosa che correva continuamente nella ruota contribuendo con la sua presenza a rallegrare l’atmosfera.

Quando dopo la laurea in filosofia decisi di venire a Roma, fu lui a convincere mio padre e mi fu vicino davvero come una figura paterna, un riferimento rassicurante. Con lui ho conosciuto Goffredo Parise, Leonardo Sciascia e altri ancora. Seguiva con attenzione e soddisfazione i mie progressi. E infine mi presentò a Gianni Letta, allora direttore de “Il Tempo” , e fu l’inizio di un felice percorso.

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