
Ho scritto di recente un articolo, pubblicato in questa stessa rubrica, dal titolo “L’America verso la postdemocrazia anche in educazione”. Sono trascorsi pochi mesi e questa tendenza è proseguita e si è andata manifestando sempre più chiaramente. Per una rivista di educazione come Scuola democratica è emerso poi un fatto che non può non interessarci particolarmente: il settore dove tale tendenza si manifesta in modo più pronunciato appare proprio l’educazione, anzi il più ampio mondo della cultura e della conoscenza di cui l’educazione costituisce uno, probabilmente il principale, degli architravi.
Di ciò non vi è peraltro da meravigliarsi. Le ricerche internazionali sulle elezioni politiche ci mostravano da tempo un fenomeno molto significativo: la variabile individuale che maggiormente influiva sui risultati elettorali ottenuti dai vari partiti non era più lo status sociale e nemmeno il genere e l’etnia, sebbene questi rimanessero pur sempre importanti. Era divenuto il livello d’istruzione, una variabile che influisce anche sulla collocazione dei partiti nello spartiacque destra-sinistra. Non solo, il divario più importante si registrava tra chi aveva compiuto gli studi universitari e chi invece si era fermato al termine della scuola secondaria o prima ancora. Gli USA non facevano eccezione.
Si spiega così un apparente paradosso. Per il governo Trump – ma non solo, lo stesso avviene in altri paesi governati dalla destra – la principale minaccia proviene proprio dalle università. Quanto più tale minaccia è dalla destra avvertita tanto maggiore la sua diffidenza o addirittura ostilità nei confronti delle università. E quanto più esse sono performanti, prestigiose ed autonome, ad esempio in America quelle dell’Ivy League, tanto più vengono considerate pericolose. Non a caso negli USA di Trump l’attuale nuova ondata di maccartismo si è abbattuta proprio su due università, Harvard e Columbia, che sono il fior fiore delle università americane . Risultano infatti tra le più quotate delle università di tutto il mondo. Basti osservare che in uno dei più accreditati e recenti rating mondiali delle università 7 delle prime 10 si trovano negli USA e tra queste Harvard compare al secondo posto, addirittura al primo tra quelle di stampo generalista.
Altro dunque che il merito e la meritocrazia! Ciò che sta avvenendo negli USA di Trump, come ha giustamente commentato la Cina, niente altro è che una politicizzazione delle università, il loro abbandono alla faziosità politica di governanti alla spregiudicata ricerca del potere per il potere.
Quale è stato il calvario imposto a Harvard? In un primo momento le sono stati tagliati i finanziamenti federali, poi, non paghi di questo e di fronte alla coraggiosa resistenza della università le si è imposto di revocare il visto – quindi espellere – i loro numerosi studenti stranieri, specialmente quelli provenienti dal principale nemico economico oltre che politico, la Cina. E li si arrivati al punto di richiedere alle università di indagare sulle idee politiche di tali studenti attraverso un controllo della loro presenza nei social e delle idee politiche ivi manifestate.
Qui si svela nitidamente il carattere post-democratico o da democratura (mix tra democrazia e dittatura) dell’America di Trump. Si è pensato evidentemente che per conservare il potere si dovessero tagliare le ali all’opposizione di sinistra ingaggiando e portando avanti con ogni mezzo (lecito o illecito che fosse) la lotta contro la sua egemonia nei mondi della cultura e dell’educazione. Insomma una delle azioni necessarie For Make America Great Again, la bandiera elettorale di Donald Trump. Occorreva pertanto dichiarare guerra a tutta una cultura, quella della sinistra, chiamata con il neologismo woke o con il termine tradizionale di liberal.
Ad essere esecrate e bandite sono state perciò le parole-chiave di tale cultura: equità, giustizia sociale, inclusione, diversità, nonché le scienze sociali perché ritenute di esse le principali propagatrici. Si assiste quindi all’esaltazione del tradizionalismo e all’esecrazione delle innovazioni in vari campi, dalla politica alla morale e alla religione. La stessa democrazia ha finito per essere avversata nelle sue versioni sociali e liberali, per restringerne il significato al mero elettoralismo, l’esercizio del voto. Ne costituisce prova palese la reazione della Casa Bianca alla decisione di una giudice federale di bloccare la revoca, decisa dal governo federale, del diritto di Harvard di accettare l’iscrizione di studenti internazionali. Che, in ragione del suo prestigio, sono sempre stati numerosissimi.
“Se i giudici vogliono fare i segretari di Stato o il presidente si candidino” si è proclamato: un’affermazione molto significativa e inquietante perché tipica delle democrature contemporanee e non a caso usata talora in Italia specialmente da Salvini: il misconoscimento del ruolo di una magistratura indipendente nel difendere lo stato di diritto da decisioni di governi che non rispettino le leggi in vigore. Un principio, questo, che rimanda a Montesquieu ed a una regola fondamentale della sua democrazia liberale: la divisione dei poteri. Il populismo contemporaneo, forza trainante della post-democrazia, essendo ostile nei confronti di tutte le élites, tende invece spesso a dimenticarsi di questa regola. E misconoscere così il valore della conoscenza e delle istituzioni quali la scuola e l’università che hanno il compito di produrla per mezzo della ricerca e riprodurla per mezzo dell’educazione. Ma possono farlo soltanto a condizione che si rispetti il pluralismo e la libertà di pensiero al loro interno. Proprio ciò di cui il maccartismo è stato negli Stati Uniti d’America ai tempi della guerra fredda e torna ad essere oggi il nemico.
La deriva post-democratica degli USA, che della democrazia liberale ha voluto a lungo porsi a livello globale come principale baluardo, genera effetti inquietanti sull’attuale conflitto geopolitico tra le democrazie e le autocrazie, essendo la postdemocrazia l’equivalente o quanto meno l’anticamera dell’autocrazia. Spesso tuttavia, come si verifica in questo caso, essa apre anche la porta a delle opportunità. Un’opportunità che offre all’Europa, quindi anche all’Italia, è di potere assumere essa il ruolo, abbandonato dagli USA, di avanguardia internazionale nel campo della ricerca scientifica e dell’istruzione superiore. E divenire essa un grande centro di accoglienza di studenti stranieri. Invece di vedere i nostri giovani ricercatori più talentuosi fuggire all’estero vederli piuttosto almeno in parte ritornare. Nonché arrivare in Italia per studiare o lavorare nelle nostre università ed altri centri di ricerca più giovani di talento provenienti da paesi stranieri. Un risultato di grande importanza su diversi piani: economico, politico e culturale.
Ciò richiederebbe però da parte del nostro governo una vera e propria inversione di rotta: investire sull’università e sui centri di ricerca extra-universitari per accrescere la loro attrattività internazionale. Anziché disinvestire, come si va facendo, con una politica non, come dovrebbe essere, di riforma e sviluppo, bensì di disinteresse e tagli alla spesa. E liberarsi del timore reverenziale nei confronti degli Stati Uniti che ci impedisce di sfruttare le opportunità oggi offerte a noi europei dalle loro autolesioniste politiche.

Per sei anni, fino al 1964, è stato Delegato nazionale del Movimento Giovanile della DC e membro della Direzione del partito. Dopo l’esperienza nell’ACPOL e nel MPL, è entrato nel PSI, dove dal 1978 al 1991 ha guidato i settori scuola, università e ricerca. Esperto di politiche dell’educazione a livello nazionale e internazionale, ha ricoperto incarichi come vice-presidente del FORMEZ, presidente di AF FORUM e consulente per diversi ministri. Ha ricoperto ruoli di primo piano nell’AIS. Ha rappresentato l’Italia in progetti di ricerca e network internazionali (CHER, RAPPE, NESSE) ed è stato Preside della Facoltà di Sociologia alla Sapienza di Roma, dove oggi insegna Sociologia dell’educazione. I suoi principali ambiti di studio riguardano eguaglianza ed equità nell’educazione, politiche formative, organizzazione scolastica e rapporti tra istruzione e lavoro. E’ fondatore e direttore della rivista Scuola democratica.