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Apprendistato in diritto dovere. Il difetto è nel manico

Apprendistato in diritto dovere. Il difetto è nel manico

di Fiorella Farinelli (Esperta di sistemi scolastici e formativi)

Sul decreto 34/2014  che introduce modifiche nel contratto a tempo determinato e nell’apprendistato, si stanno svolgendo discussioni accese. Si tratta, per entrambi, della liquidazione di un insieme di vincoli che, a ragione o a torto, vengono ritenuti di impedimento alla ripresa dell’occupazione, in primis giovanile. Si discute in verità più del primo che del secondo e, per quest’ultimo, più dell’apprendistato “professionalizzante” ( l’unica delle tre tipologie che, nonostante il calo dovuto alla recessione, ha numeri ancora a sei cifre ), che dell’apprendistato in “diritto-dovere”, cioè quello attraverso cui i più giovani assolvono all’obbligo di istruzione acquisendo contemporaneamente una qualifica professionale. Il motivo non è che i contratti di questo tipo siano da sempre poco più di una manciata. La freddezza politica e sindacale all’unica tipologia di apprendistato che presenta qualche analogia con il “duale tedesco, austriaco,svizzera, viene da lontano. Da noi, si sa, l’idea vincente è stata sempre che per i minori di 18 anni non ci possa essere altra chance di crescita professionale e culturale se non l’esperienza scolastica “pura”, o al massimo ( ma con diffusissime contrarietà ) l’istruzione/formazione professionale dei percorsi triennali regionali. E pazienza se i fatti vanno in un’altra direzione e se sono tantissimi i ragazzi che, mai senza ragioni,a 15 o 16 anni non vogliono più sentirne di scuola, e neppure di proseguire per altri tre anni nella condizione di studente a tempo pieno. Eppure di giovani senza licenza media, senza qualifiche, senza esperienze di lavoro – e senza idee di come uscirne – è affollata l’area sterminata dei NEET. Che fare ?

Le piste possibili sono almeno due. Una è potenziare i triennali ( e poi il quarto anno per il diploma professionale), senza ricorrere alla falsa “sussidiarietà” del recente ritorno ai professionali statali, visto che è la formazione professionale- come dimostrano tutti gli studi, a partire dai rapporti ISFOL1, il canale che, con la sua didattica in contesti operativi concreti, dà i migliori risultati, in termini sia di inserimento occupazionale che di rientro scolastico. Sul tema è tornato recentemente un bel documento dei salesiani e delle ACLI2, in cui tra l’altro si denuncia che in metà delle nostre Regioni il canale in questione non c’è ( e sono tutte, tranne la Sicilia, quelle in cui gli abbandoni precoci sono di pi ). L’altra è, appunto, l’apprendistato in diritto-dovere, che però funziona pochissimo per contrarietà diffuse delle imprese ( e per la disattenzione di cui sopra ) che avrebbe bisogno urgente di essere rilanciato.

Il decreto 34, per l’appunto, un po’ ci prova. Lo fa con un dispositivo apparentemente inquietante, e che però a ben vedere potrebbe aprire a qualche passo nella direzione giusta. Scrive infatti il decreto che “fatta salva l’autonomia della contrattazione collettiva… al lavoratore è riconosciuta una retribuzione che tenga conto delle ore di lavoro effettivamente prestate nonché delle ore di formazione nella misura del 35% del relativo monte ore complessivo”. Che significa ? Intanto che un ragazzo in apprendistato per il diritto-dovere viene retribuito di meno di un lavoratore in apprendistato professionalizzante che gode del salario contrattuale ( anche se può essere inquadrato in livelli inferiori rispetto alla mansione), in ragione del fatto che la formazione esterna non si riduce come in questo caso al gruzzoletto delle 40 ore, ma richiede le 600-900 ore necessarie alla qualifica. E’ giusto ? Nella logica del “duale” sì, visto che un giovane apprendista tedesco non ha un vero contratto di lavoro ma di formazione, è infatti soprattutto uno studente con una remunerazione che assomiglia a una borsa di studio più che a un salario . Ma,ovviamente, lì la formazione si fa davvero, con una settimana fatta di tre giorni di lavoro e due di scuola professionale nel primo anno ( e un mix variamente modulato dei due ingredienti nei successivi ). Nella logica italiana, che invece pretende che anche l’apprendistato in diritto-dovere sia un contratto di lavoro normale- e che lo estende fino al 25esimo anno, un po’ tardi per essere studenti – appare invece problematico che siano pagate solo le ore lavorate e che sia ridotta al 35% la retribuzione delle ore di formazione. Ma è proprio questa logica che poi si sconta con “la-formazione-che-non-c’è”, con la continua riduzione degli obblighi formativi ( il decreto toglie di mezzo, nell’apprendistato professionalizzante, anche l’obbligo del piano individuale scritto e rende discrezionale per l’impresa la formazione esterna delle Regioni ) e con la riduzione a numeri insignificanti dell’apprendistato in diritto-dovere. Non sarebbe più sensato introdurre un contratto davvero formativo, che offra la qualifica e magari anche un diploma ( aggiungendo all’IeF triennale i percorsi degli istituti tecnici ), con un costo del lavoro più accessibile per le imprese stremate da anni di crisi?

Il decreto, insomma, fa un passo nella direzione giusta, ma troppo piccolo per mettere in discussione la natura del contratto. Eppure è di qui che bisognerebbe passare per avere anche in Italia il modello tedesco. Che si chiama “formazione professionale duale” proprio perché è di formazione che si tratta, e di una formazione che si svolge in due contesti diversi, cioè la scuola e un’impresa ( capace di fare formazione) . Il difetto dell’esperienza italiana, in effetti, è nel manico. Bisognerebbe convincersene.

Scuola democratica
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