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Reintroduzione dell’educazione civica e insegnamento di “questioni controverse”

Reintroduzione dell’educazione civica e insegnamento di “questioni controverse”

di Alessandro Cavalli

[l’articolo che segue risponde alla chiamata al DIBATTITO EDUCAZIONE CIVICA ORA. Per vedere l’articolo di avvio del dibattito clicca QUI  ]

La Legge 20 agosto 2019 n. 92 approvata dalla Camera dei deputati e dal Senato a larghissima maggioranza prevede l’introduzione (o meglio, la reintroduzione) dell’educazione civica in tutte le classi scolastiche, dalla scuola primaria alla secondaria. Che tutte le forze politiche, sia della coalizione al potere che dell’opposizione, abbiano trovato un accordo su un singolo disegno di legge è un segno positivo, ma anche un po’ inquietante. Positivo, perché dimostra che la necessità di affrontare le lacune dell’educazione civica è sentita da tutti; inquietante perché il consenso può rivelare la genericità della proposta e anche l’assenza di idee su come e cosa insegnare.

 Non è la prima volta in Italia che si cerca di introdurre l’educazione civica. Già una decina d’anni fa era stata approvata una legge che introduceva l’insegnamento allora chiamato “Cittadinanza e Costituzione”, ma l’approvazione di una legge non basta per cambiare la realtà. Non solo perché spesso manca la volontà politica necessaria per passare dalle parole ai fatti, ma perché la scuola spesso  preferisce chiudere gli occhi di fronte alle difficoltà e agli ostacoli della fase di applicazione concreta della legge.

Il compito di educare i bambini e i giovani a diventare cittadini responsabili è stato infatti affidato alla buona volontà delle famiglie e all’impegno volontario di insegnanti consapevoli. Inoltre, oggi i partiti politici non si preoccupano più neppure di rinnovare i quadri delle loro organizzazioni giovanili. È vero che in molti, se non in tutti i libri di testo per l’insegnamento della storia, l’ultimo capitolo è destinato all’educazione civica. In linea di principio, gli articoli della Costituzione repubblicana del 1946, almeno quelli della prima parte, sono presi come fonte primaria per l’insegnamento dei doveri e dei diritti fondamentali dei cittadini e delle istituzioni. Ma la maggior parte degli alunni non arriva a questo stadio e pochissimi ricevono qualcosa di più di alcune nozioni sul funzionamento formale delle istituzioni pubbliche. Peraltro, a parte le ricerche internazionali (IEA, International Civic and Citizenship Education Study, 2016 International Report) sulla realtà dell’educazione civica in Italia non sappiamo molto. La ricerca, anche in questo campo, è di fatto assai carente.

Dobbiamo chiederci perché tutti i tentativi di introdurre l’educazione civica hanno incontrato difficoltà così persistenti. Credo che questa serie di fallimenti sia legata ad alcune caratteristiche strutturali della società italiana, alcune delle quali risalgono addirittura al processo di unificazione nazionale, mentre altre si sono sviluppate in seguito, e caratterizzano ancora oggi la situazione del Paese.

Si tratta di un Paese che fin dall’inizio dello Stato nazionale è stato diviso lungo divisioni religiose, ideologiche, culturali, economiche e politiche che hanno impedito la formazione di una cultura politica nazionale sufficientemente unificata e integrata.

 E’ utile ricordare brevemente queste caratteristiche strutturali della nostra storia.

In primo luogo, l’unificazione dei vari Stati regionali in un unico Stato nazionale è stata realizzata con l’opposizione della Chiesa cattolica romana e quindi con l’opposizione, o almeno con indifferenza, di gran parte delle masse contadine di un Paese ancora prevalentemente rurale. La Chiesa e lo Stato raggiunsero presto un tacito accordo (quello esplicito arrivò molto più tardi con il cd. concordato al tempo di Mussolini): la Chiesa si sarebbe occupata dell’educazione morale del popolo nella sfera privata nel quadro dei valori religiosi, mentre lo Stato si sarebbe assunto il compito di formare la coscienza nazionale, di insegnare la storia nazionale e di preparare il popolo a combattere, e morire, pour la patrie. Il motto “Dio, patria e famiglia”, recentemente ripreso nelle piazze, originariamente formulato da Mazzini, senza fare riferimento al cattolicesimo, ripreso dal fascismo, esprime la necessità di tenere insieme quella che storicamente è stata una frattura che ha origini remote e profonde.

In secondo luogo, come molti altri Paesi coinvolti in un processo di intensa e rapida industrializzazione, l’Italia ha vissuto fasi di intensa lotta di classe tra la borghesia e la classe operaia organizzata. La lotta di classe rappresenta una minaccia latente di guerra civile, soprattutto quando manca il sostegno ai valori patriottici. È stata la prima guerra mondiale, con l’esaltazione della missione patriottica della liberazione di Trento e Trieste, a provocare la scissione del movimento operaio e a rimuovere la minaccia della guerra civile.

Terzo, dopo la guerra e l’ascesa al potere del fascismo, il periodo tra le due guerre mondiali, l’8 settembre, l’occupazione tedesca, la Resistenza, la scena fu occupata dalla dicotomia fascismo/antifascismo. La Resistenza ha certamente contribuito alla legittimità della neonata Repubblica, tuttavia, si è trattato di una guerra civile e la legittimità attraverso una guerra civile lascia inevitabilmente ferite difficili da rimarginare.

Quarto, dopo la divisione dell’Europa, tagliata in due parti dalla cortina di ferro, il Partito comunista, che aveva svolto un ruolo decisivo nella Resistenza, fu escluso dalle forze politiche legittimate a governare il Paese. L’Italia fu di nuovo divisa in due fazioni opposte: comunisti e anticomunisti. Questo contrasto ha caratterizzato, con alterne vicende, la storia recente del Paese fino alla caduta del muro di Berlino. Il sistema politico italiano è stato a lungo un sistema bloccato dalle divisioni sulla scena politica internazionale.

Quinto, in tutte queste fasi storiche, nel corso dei 160 anni dalla sua esistenza come Stato nazionale, il Paese è stato diviso tra le regioni più sviluppate del Centro-Nord e le regioni più arretrate del Sud. La spaccatura Nord-Sud è una caratteristica strutturale della società italiana, lo è dal punto di vista dello sviluppo economico, ma lo è anche dal punto di vista della sua cultura politica e civile.

In sesto luogo, arrivando ai nostri giorni, si profila una nuova divisione tra nazionalisti antieuropeisti (oggi chiamati “sovranisti”) e forze che possono essere considerate a vario titolo pro-europee. Tale contrasto taglia trasversalmente la sinistra e la destra tradizionali, è comune a quasi tutti gli altri Paesi dell’Unione Europea, e incide sull’idea di nazione, che finora ha costituito la base attorno alla quale si è costruita la cultura politica che tiene insieme gli Stati e le società nazionali.

 Queste divisioni sono in gran parte responsabili dell’assenza di educazione civica nelle nostre scuole, soprattutto per il periodo dal secondo dopoguerra ad oggi. Come sarebbe stato possibile affrontare la tematica del “fascismo”, del  “comunismo”, della  “questione meridionale” davanti a una classe in cui una parte degli alunni erano figli e figlie di ex-fascisti, comunisti o di immigrati dal sud?

 Per comprendere il passato e il presente di questo Paese, non si può evitare di affrontare “questioni controverse”, sulle quali è legittimo avere opinioni diverse e persino contrastanti. Se gli insegnanti non hanno strumenti didattici adeguati per affrontare le questioni controverse, tenderanno inevitabilmente ad evitarle e avranno anche buone ragioni per farlo, perché altrimenti metterebbero in moto dinamiche che poi non sarebbero più in grado di controllare. Le questioni controverse sono inevitabilmente questioni politiche e la politica dovrebbe, secondo l’etica professionale prevalente tra gli insegnanti, essere “tenuta fuori” dalle aule perché inquinerebbe il clima di concordia che deve accompagnare i processi educativi. In questo modo, l’educazione che serve a orientarsi nella sfera politica e sociale viene di fatto messa al di fuori della cultura e dai programmi scolastici.

Gli insegnanti mostrano tre atteggiamenti tipici nei confronti delle “questioni controverse” in termini di educazione civico-politica: l’evitamento, l’indottrinamento, l’approfondimento.

L’evitamento è la strategia tradizionale adottata nella scuola italiana: la scuola non è il luogo dove si possono fare discussioni politiche, soprattutto la scuola pubblica.

L’indottrinamento è la strategia opposta e viene adottata da quegli insegnanti che usano l’autorità e l’ascendente derivante dalla posizione che occupano per diffondere le loro idee e le loro scelte politiche.

L’approfondimento riflette un approccio cautamente scientifico ed è la strategia degli insegnanti che non hanno certezze o, se le hanno, si astengono consapevolmente dal manifestarle, cercando di sviluppare strumenti per indagare i problemi, confrontando le diverse prospettive di analisi. È una minoranza di insegnanti che non vuole sottrarsi al compito di rispondere alle domande esplicite o implicite dei propri studenti che cercano di orientarsi in ambiti politicamente rilevanti.

La politica ha a che fare, quasi per definizione, con questioni controverse e la democrazia è un modo di affrontare i conflitti ideali o materiali nel quadro di regole accettate dai contendenti. L’educazione alla cittadinanza democratica richiede la capacità di accettare divergenze e conflitti e di ragionare (e argomentare) sulle ragioni degli uni e degl’altri, sulle soluzioni possibili e sui compromessi. La democrazia è soprattutto un sistema di regole condivise per la gestione dei conflitti. Le scienze sociali possono offrire strumenti affidabili per affrontare l’analisi e la decisione su questioni controverse in modo “civile”, basato sul rispetto reciproco e sulla capacità di ascoltare le argomentazioni di chi la pensa in modo diverso.

 Le scienze sociali non occupano una posizione significativa nel sistema scolastico italiano. I corsi di “Economia e diritto” sono presenti in funzione pre-professionale in alcune scuole secondarie di secondo grado orientate alla formazione del personale dirigenziale e amministrativo, mentre “Sociologia” e “Psicologia sociale” sono insegnate nelle scuole che un tempo preparavano gli insegnanti della scuola primaria e che oggi hanno preso il nome di “licei delle scienze umane e/o sociali”. Più di 40 anni fa, il Consiglio Italiano delle Scienze Sociali aveva formulato la proposta di introdurre l’insegnamento delle scienze sociali o degli studi sociali in tutti gli ordini di scuola secondaria. La proposta non aveva ricevuto la minima attenzione da parte dei decisori politici dei governi dell’epoca. L’intento allora era quello di introdurre un insegnamento capace di trasmettere l’idea che la realtà umana, e quindi anche la politica, potesse essere affrontata con mentalità e metodo scientifico e che la scienza non si fermasse di fronte a questioni controverse.

In Italia, l’assenza di una tradizione di educazione civica o di studi sociali può tradursi in un vantaggio in quanto apre il campo alla sperimentazione di nuovi percorsi educativi.

Le scienze sociali non sono in grado di risolvere i dilemmi etici e politici che emergono da qualsiasi questione controversa. Tuttavia, in molti casi un approccio comparativo, che ci permette di cogliere affinità e differenze, può aiutarci ad affrontare le questioni controverse e a controllare le componenti emotive ad esse invariabilmente connesse, in modo da aiutare gli studenti a sviluppare una propria opinione personale, certamente sempre orientata verso i propri orientamenti di valore, ma meno condizionata da pregiudizi diffusi.

L’approccio comparativo è utile non solo per confrontare società diverse nel tempo e nello spazio, ma anche per analizzare opinioni e interpretazioni diverse della stessa realtà fattuale. Infatti, una questione diventa controversa quando dà luogo a opinioni e interpretazioni diverse. Per gestire una situazione controversa, bisogna saper ascoltare le diverse voci, confrontarle, riflettere e quindi sviluppare la propria opinione. Per condurre tutte queste operazioni gli strumenti offerti dalle scienze sociali sono indispensabili anche senza avere una fiducia incondizionata nelle virtù della scienza in generale e delle scienze sociali in particolare.

Nel campo dell’educazione civico-politica, il problema non è la mancanza di informazioni, ma la disponibilità di criteri per organizzare l’informazione e distinguere tra notizie e fonti affidabili e non affidabili.

Per affrontare le questioni controverse in classe, sono richieste capacità didattiche che non possono essere date per scontate nel corpo docente delle nostre scuole dove prevalgono ancora i metodi di insegnamento tradizionali, con il cosiddetto “insegnamento frontale”, dove l’insegnante detta le lezioni e durante e/o alla fine del corso gli studenti devono dimostrare ciò che hanno imparato. Piuttosto, è necessario ricorrere al dialogo, al lavoro di gruppo, all’apprendimento cooperativo, a tutte quelle pratiche che prevedono la partecipazione attiva dell’allievo al processo di apprendimento.

L’educazione civico-civile-politica non deve essere una materia scolastica come tutte le altre, non deve nemmeno necessariamente essere insegnata da un insegnante specializzato e, alla fine, non deve essere soggetta alla valutazione dell’apprendimento come tutte le altre materie. Tutti i docenti dovrebbero essere coinvolti e uno degli strumenti didattici più appropriati possa essere la discussione in classe su argomenti scelti insieme da docenti e studenti, anche se nel quadro delle linee guida suggerite dal ministero, senza escludere l’apprendimento di un minimo di contenuti, tenendo però presente che le conoscenze di fatto si acquisiscono più facilmente di fronte alla necessità di applicarle all’analisi di casi concreti.

La legge recentemente approvata dal Parlamento è abbastanza generica da non prescrivere un modello definito di educazione civica e dovrebbe quindi offrire agli insegnanti, disposti ad impegnarsi, la possibilità di seguire percorsi innovativi. Diverse indagini tra i giovani e gli studenti riferiscono che molti di loro vivono il tempo della scuola con un senso di noia. Sono molti i fattori che spiegano questa esperienza negativa. Che non ci siano reali opportunità per portare in classe la natura controversa e problematica della realtà politica e sociale al di fuori della scuola è probabilmente uno dei fattori che spiegano il disinteresse e l’apatia di molti giovani nei confronti della scuola.

Si ricorda che il numero speciale di Scuola Democratica dedicato a Education and Postdemocracy è on line e gratuito. Per accedere cliccare QUI

Si ricorda che gli Atti della conferenza EDUCATION AND POST-DEMOCRACY 2019 sono on line e gratuiti. Per accedere cliccare QUI

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