Come reclutare per l’insegnamento i migliori futuri laureati (previa una conclusione corretta per il passato)
di Giunio Luzzatto (esperto di organizzazione didattica dei sistemi universitari)
Contributo in risposta all’articolo “Per avere una buona scuola ci vuole una buona discussione”
Intervengo qui, monograficamente, solo sul Capitolo 1, “Assumere tutti i docenti di cui la buona scuola ha bisogno” (per scaricare l’intero documento clicca qui) soffermandomi sulla seconda parte, quella relativa alla prospettiva “a regime”; sulla prima parte, relativa all’eliminazione del precariato, sono infatti sostanzialmente concorde, con piena soddisfazione per l’enfasi sull’organico funzionale e con una perplessità solo circa la riserva alle GAE del 90% dei posti, con riduzione al 10% della quota per il concorso ordinario. E’ ben vero che si tratta di una soluzione una tantum, e che successivamente le GAE dovrebbero non esservi più; ma l’opinione pubblica, abituata al fatto che in Italia il provvisorio rischia sempre di essere definitivo, può essere scettica… Forse, assorbire le GAE in due anni anziché in uno potrebbe evitare di inficiare in modo così profondo, anche se temporaneo, il principio del concorso per ALMENO il 50% dei posti.
La prospettiva “a regime” concerne non solo il reclutamento, ma anche le procedure di abilitazione dei futuri insegnanti: opportunamente, poiché si tratta di questioni intrinsecamente connesse. Per la scuola secondaria, circa l’abilitazione il testo mantiene quanto è previsto dal Decreto Gelmini 249 del 2010. Per le varie aree disciplinari, dopo la laurea triennale di 1°livello (L), vi sono una Laurea Magistrale biennale (LM), a numero chiuso, specificamente orientata alla didattica e un successivo anno di Tirocinio; al momento, peraltro, il Decreto è stato attuato solo per l’anno terminale (il TFA, Tirocinio Formativo Attivo). Il presente progetto rilancia ora l’attivazione anche del precedente biennio; questo biennio si caratterizza come “universitario”, mentre il Tirocinio verrebbe ridotto a un semestre e sarebbe di diretta competenza del sistema “scolastico”.
A proposito di questo modello ho fortissime riserve. Le LM sono strutture didattiche centrate sulle discipline, e organizzate -negli Atenei- rigorosamente all’interno delle Facoltà (un tempo), ora addirittura dei Dipartimenti; sono cioè del tutto settoriali, sicché il futuro insegnante percorrerebbe, in cinque anni e mezzo di studi, cinque anni rivolti alla preparazione sui contenuti della “materia” e solo mezzo destinato a fornire le altre competenze che la professione richiede. E’ ben vero che, sulla carta, due dei cinque anni dovrebbero riguardare gli aspetti “didattici” delle discipline da insegnare e non solo quelli “scientifici”; ma, tenuto conto delle tradizioni accademiche, è del tutto improbabile che -lasciati a se stessi- i Dipartimenti diano alle tematiche della didattica il debito spazio in una LM, e in ogni caso esso riguarderebbe solo la disciplina singola, non aspetti educativi più generali e neppure le opportune aperture interdisciplinari (essenziali per chi, quando opererà nei Collegi dei docenti e nei Consigli di classe, dovrebbe disporre degli strumenti anche linguistici adeguati per poter dialogare utilmente con colleghi di materie diverse).
Da ciò il mio netto dissenso. Viene mantenuto infatti l’aspetto peggiore che caratterizza il Decreto Gelmini, cioè il sistema generalizzato delle separatezze: separatezza istituzionale tra università e scuola, separatezza culturale tra le discipline. Questa logica è del tutto anacronistica, in un momento nel quale si stanno ovunque evidenziando il ruolo delle competenze trasversali e le esigenze di interdisciplinarità; ruolo ed esigenze validi in ogni campo professionale, ma ancor più decisivi quando si considera la professione docente.
Anziché dividere tra un breve “tirocinio” scolastico finale e un precedente biennio accademico (e settoriale), peraltro a numero chiuso, occorre puntare con coraggio a una piena integrazione università-scuola nell’intero percorso: se si guarda alla documentazione internazionale sulla formazione degli insegnanti, il termine che maggiormente compare è quello di partnership. L’integrazione proposta ha anche l’effetto di costringere l’Università a gestire queste attività di formazione non in termini parcellizzati, bensì attraverso strutture interdipartimentali atte, al contempo, a gestire unitariamente, all’esterno, il rapporto convenzionale con il sistema scolastico ed a promuovere, all’interno, la collaborazione tra le aree disciplinari. Solo togliendo alla struttura formativa in questione l’etichetta della LM ( con la corrispondente “Tesi” scientifica), e qualificandola invece come Corso di specializzazione professionalizzante, si possono inoltre ottenere altri cinque effetti positivi: -1) l’abbreviazione dei tempi di formazione, se il Corso sarà biennale; -2) una progettazione curricolare che preveda fin dall’inizio interventi diretti nelle scuole e un insieme di altre attività formative che consentano di valutare l’attitudine allo svolgimento della funzione docente: il concorso di accesso, inevitabilmente, può giudicare solo le competenze disciplinari, ed è opportuno che la presenza di eventuali caratteristiche personali tali da suggerire una diversa prospettiva di studi venga individuata al più presto, e non solo a fine percorso; -3) l’affidamento della docenza, senza discriminazioni, sia ad universitari sia a professionisti esterni (per le didattiche disciplinari, va detto, alcuni insegnanti in servizio sono più competenti, anche in termini di ricerca didattica, rispetto agli accademici -i quali, in esperienze passate, spesso riciclavano come “didattica dell’italiano”, della fisica o di altro il proprio consueto insegnamento meramente contenutistico-); -4) l’attribuzione di un peso curriculare rilevante al tirocinio nelle scuole, da organizzare non come partecipazione episodica ma come messa in campo di veri e propri progetti didattici previamente elaborati in appositi laboratori; -5) la conclusione del Corso attraverso la discussione non di una Tesi tradizionale, ma di una Relazione che riesamini criticamente il complesso delle attività di laboratorio didattico e di tirocinio che devono aver caratterizzato il percorso.
Il sistema prevede attualmente due numeri chiusi: uno di ingresso nel Corso abilitante e uno relativo al numero di posti disponibili nel successivo concorso di reclutamento. Il raccordo tra tali numeri non è agevole; comunque, per un neo-laureato è del tutto scoraggiante l’idea di partecipare a una dura selezione di accesso ad un Corso che come sbocco dà un titolo il cui effetto è solo il diritto di partecipare a un ulteriore concorso! Occorre puntare invece ad una soluzione che unifichi i due momenti, attraverso la formula -già adottata per alcune assunzioni nella P.A.- del “corso-concorso” (sarebbe più comprensibile dire “concorso-corso”): si recluta per il numero di posti occorrente, ma i vincitori del concorso non entrano immediatamente in servizio attivo, essendo invece impegnati alla frequenza di un Corso di formazione, la cui conclusione positiva darà la conferma dell’ingresso in ruolo.
Per i giovani che hanno conseguito una laurea di 1° livello, l’opportunità di un immediato concorso, dopo la vincita del quale una assunzione a tempo indeterminato dipenderà non da circostanze esterne, ma solo dall’impegno con il quale l’interessato avrà seguito un corso di formazione, eserciterebbe una grande attrazione. La condizione (non del tutto sufficiente, ma senz’altro necessaria, anzi prioritaria) affinché vi sia una “Buona Scuola” è che vi siano buoni, meglio se ottimi, insegnanti; l’ipotesi qui delineata può prefigurare un futuro nel quale molti tra i laureati più qualificati potranno essere indotti a scegliere l’insegnamento quale propria prospettiva professionale.