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Evoluzioni e problemi dell’IeFP in due recenti studi ISFOL. Perché la Buona Scuola non se ne occupa ?

Evoluzioni e problemi dell’IeFP in due recenti studi ISFOL. Perché la Buona Scuola non se ne occupa ?

 di Fiorella Farinelli (Esperta di sistemi scolastici e formativi) 

Continua il trend positivo delle iscrizioni all’Istruzione e Formazione Professionale. Nel 2013-14 sono 316.018 gli allievi dei “triennali”, e 12.156 gli iscritti al ” quarto anno” per il diploma professionale. L’IeFP è sempre meno una scelta di ripiego e sempre più una prima scelta. Il 46,2% degli iscritti alla prima classe ha infatti 14 anni, e sono sempre di più gli studenti che hanno avuto buoni risultati agli esami finali della scuola media. Se la composizione sociale dei frequentanti conferma i tratti di un’offerta formativa predisposta al contenimento degli abbandoni precoci – emblematica, per esempio, la sovrarappresentazione degli studenti di origine straniera, il 14,7% del totale – sono sempre più evidenti anche scelte di tipo vocazionale. E’ l’attrattiva di una formazione ancorata al mondo del lavoro, di un imparare che si misura con tecnologie, materiali, contesti operativi, cui forse si aggiunge l’impatto sulle scelte formative della disoccupazione giovanile attuale. Ma i limiti e i problemi, anche dopo la messa a regime del 2009-10, sono tanti. Non vengono solo dai non sempre qualificati processi di realizzazione della “seconda gamba” del sistema educativo. Le difficoltà maggiori sono sempre derivate dall’esterno, dalla sottovalutazione – quando non dalle contrarietà – di decisori istituzionali che pure dovrebbero avere come bussola la riduzione della dispersione e lo sviluppo di offerte formative ben collegate con le esigenze del mondo del lavoro. Difficoltà che persistono, nonostante gli iscritti all’IeFP siano ormai l’8% dei 14-18enni, e a dispetto di un trend che ne prefigura un probabile prossimo sorpasso rispetto all’istruzione professionale tradizionale1. Non fa eccezione la “Buona Scuola” che, pur nel progressivo e fluviale dilatarsi a una pluralità di argomenti anche disparati, in nessuna delle sue diverse versioni mostra interesse all’ argomento.

Di che si tratta? Un quadro puntuale viene da due recenti studi ISFOL, uno è il XIII monitoraggio dell’IeF2, l’altro un’analisi dei costi dello Stato e delle Regioni3. Il primo problema è che il sistema non è davvero decollato nel Sud, dove il fenomeno degli early school leavers è notoriamente più acuto. Il secondo è che negli ultimi 4 anni si è verificata un’inversione degli equilibri tra il peso specifico dei percorsi attuati nelle istituzioni formative della FP e quello dei percorsi attuati negli istituti professionali. Se nel 2009-2010 il 60,9% degli iscritti al primo anno frequentava le prime, nel triennio successivo il dato precipita al 40%. Con una progressiva ” scolasticizzazione” che interessa di più le aree meridionali. Ciò è dovuto principalmente all’intesa Stato-Regioni del 2012, in cui si prevede la possibilità del riconoscimento da parte delle Regioni di un ruolo “sussidiario” degli IPS rispetto agli Enti formativi accreditati. La distinzione contenuta nell’intesa tra sussidiarietà “complementare” ( i percorsi si attuano in classi apposite) e sussidiarietà “integrativa” ( i percorsi si attuano in classi ordinarie ) non nasconde che qui sussidiarietà significa prevalentemente sostituzione. L’analisi dei dati dice che in gran parte dei casi gli IPS non utilizzano le flessibilità ordinamentali che consentirebbero una programmazione dei percorsi distinta rispetto al percorso tradizionale, e che in un quarto almeno delle scuole non risultano esserci armonizzazioni curricolari e didattiche con le qualifiche professionali di riferimento. Carente, negli IPS, è anche l’alternanza studio-lavoro (nel 2013-14, secondo Indire, solo il 21,6% degli studenti IPS ne è stato coinvolto) mentre nei percorsi attuati nella Formazione Professionale gli stages sono parte costitutiva del curriculum . Diversi nei due comparti sono anche gli esiti formativi – ottiene una qualifica regionale il 57,1% degli iscritti IPS a fronte del 66,2% degli iscritti agli enti- e l’ efficacia occupazionale. Numerosi studi, anche non di ISFOL, evidenziano infatti che a 3 anni dalla qualifica trova un lavoro il 55% dei qualificati degli enti, contro il 38% degli IPS4. Non c’è da meravigliarsi, la quinquennalizzazione degli IPS ( 2008 ) e la riforma Gelmini hanno prodotto una sorta di licealizzazione, con il taglio di materie professionalizzanti e di attività laboratoriali,mentre è aumentato il peso di quelle generali ( da 12 a 20 ore ). La Formazione Professionale, dove è di buon livello, offre ben altre potenzialità formative e di inserimento lavorativo. E’ per questo che nelle Province di Bolzano e di Trento, dove la FP è ben organizzata , gli IPS sono stati quasi completamente sostituiti dall’IeFP. Sul piano nazionale bisogna però riconoscere che, se in alcune aree del paese al suo mancato sviluppo hanno contribuito da un lato uno stato scadente dei sistemi regionali di FP dall’altro una intenzionalità politico-culturale debole o assente, anche le Regioni che hanno lavorato bene alla costruzione del nuovo sistema hanno voluto l’intesa del 2012 che avrebbe portato a una ri-scolasticizzazione dei percorsi triennali. Il motivo principale risiede nello scarto sempre più consistente tra i contributi statali e le esigenze locali di sviluppo dei percorsi. Dal 2009, come è noto, il MIUR ha cessato ogni erogazione mentre i contributi iniziali del Ministero del Lavoro, invece che crescere coerentemente con l’incremento della domanda, sono diminuiti da 204 milioni a 183: col risultato che, nonostante l’utilizzo – in verità non del tutto appropriato – di risorse comunitarie, il peso finanziario per le Regioni più impegnate nello sviluppo dell’offerta, è diventato insostenibile. E’ stato così che la “sussidiarietà” degli IPS – che l’ISFOL non a caso definisce “invertita” – è diventata una sorta di via obbligata.

E’ una via sensata ? Se negli ultimi anni la dispersione negli IPS è cresciuta di 3 punti, la collocazione dei triennali in un’istruzione professionale quinquennale toglie slancio anche all’istituzione del “quarto anno” per il diploma professionale, e ciò compromette l’identità stessa di una “seconda via” che doveva svilupparsi anche in alto, per l’accesso a un’istruzione terziaria non accademica . Il solo risultato apprezzabile è il contenimento delle spese regionali. E però è evidente che non si tratta affatto di risparmio della spesa pubblica, non solo perché i costi si trasferiscono sullo Stato, ma anche perché – come dimostra lo studio ISFOL – uno studente in IPS costa molto di più di uno studente in FP. La differenza è notevole, si tratta del 33,4% sul piano nazionale (32,75% nel Nord, 37,2% nel Centro, 34,5% nel Sud ), e si spiega principalmente col maggior numero di discipline di area comune dell’istruzione professionale rispetto ai curricoli FP. L’analisi dei costi regione per regione, inoltre, mette in evidenza un altro elemento critico, cioè la forte diversificazione territoriale dei costi dei percorsi attuati nelle istituzioni formative. Un effetto, questo, dell’incapacità dello Stato di definire Lep e costi standard ( e di farli rispettare ). Ci sarebbero ottime ragioni, insomma, per non dimenticarsi della IeFP. Tanto più in una fase di sperimentazione del “duale” di ispirazione tedesca e, comunque, di forte valorizzazione dell’apprendimento in contesti operativi. Ma non sta succedendo. Non è un dettaglio secondario, questa assenza, per una valutazione della “Buona Scuola”.

Scuola democratica
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