I numeri di Tuttoscuola sulla dispersione scolastica
di Fiorella Farinelli (esperta di scuola e formazione)
Hanno fatto un po’ di conti a Tuttoscuola. Da uno studio dei numeri MIUR relativi al 2012-13 che misura la differenza tra gli iscritti all’ultima classe e quelli iscritti alla prima classe di cinque anni prima, viene fuori che nella scuola secondaria di secondo grado mancano all’appello quasi 160.000 ragazzi. Il 27% del totale (http://www.tuttoscuola.com/cgi-local/nl_archivio.cgi?id=1050). Per i più ottimisti – ce ne sono stati, tra i commentatori della stampa nazionale – il fatto che i “dispersi” siano circa 20.000 in meno rispetto all’anno precedente suona come una buona notizia. Per i più attenti, un po’ meno. Intanto perché numeri e percentuali restano enormi (e nettamente superiori alle medie europee). E poi perché dovrebbe inquietare che, a distanza di più di un decennio dall’obbligo introdotto per via normativa di “integrare” i dati del MIUR con quelli delle Regioni relative alla formazione professionale iniziale e al cosiddetto “apprendistato” in diritto-dovere, non disponiamo ancora di una base dati in grado di dirci quanti – e chi – dei dispersi abbiano trasmigrato nell’Ief ( e con quali risultati ) o siano entrati nel mercato del lavoro. E non conosciamo neppure- perché le diverse anagrafi esistenti non si rapportano mai ai dati delle anagrafi comunali– se ci sia uno scarto, e di quale entità, tra i soggetti in diritto-dovere e gli inclusi nei circuiti scolastici, formativi o di formazione e lavoro. Eppure il paese spende non poche risorse per la costituzione delle diverse anagrafi, compresa quella delle Comunicazioni Obbligatorie che registrano i contratti di lavoro dipendente ( comprese le cessazioni e le trasformazioni ), l’apprendistato e i tirocini.
Ma torniamo allo studio di Tuttoscuola che ci dice anche che quest’anno, dopo i due primi anni di scuola secondaria di secondo grado, sono “spariti” quasi 91.000 studenti, cioè il 14,8% di quelli che si erano iscritti due anni prima. Non solo. Precisa pure che in alcuni settori, come quello degli istituti professionali, la mancata ammissione alla terza classe è in netta crescita, in numeri sia assoluti che percentuali. E qui ad entrare in campo è una riflessione sia sull’efficacia dell’innalzamento dell’obbligo di istruzione a 16 anni, che risale a più di 5 anni fa, sia sul recente accordo Stato-Regioni che consente a queste ultime di affidare agli Istituti Professionali il delicato settore dell’Ief, nonostante che tutte le rilevazioni, a partire da quelle ISFOL, dimostrino senza ombra di dubbio che è nella formazione professionale “pura” che gli studenti hanno maggiori possibilità di conseguire una qualifica professionale e, per questa via, di accedere – dove ci sono – ai diplomi professionali quadriennali. E’ solo dove l’apprendimento si fa in contesti operativi e dove la didattica è prevalentemente laboratoriale, infatti, che i ragazzi che per le più diverse ragioni non si trovano a loro agio nella struttura “scolastica”, trovano chance interessanti di rimotivazione allo studio.
Gli errori politici che vengono a galla sono tanti. L’improvvida “quinquennalizzazione” degli istituti professionali, decisa solo per evitare che la “riforma” del Titolo V li trascinasse nell’orbita delle competenze regionali. La liquidazione della quota parte dei finanziamenti MIUR alle Regioni per l’Ief che ha costretto proprio le Regioni che hanno investito di più sui percorsi triennali di istruzione e formazione e quindi a un forte incremento della domanda di questo tipo di formazione a tornare, almeno in parte, sui passi perduti, ma finanziariamente più convenienti, degli Istituti professionali. E poi, soprattutto, un obbligo di istruzione che, pur elevato al 16° anno, non prevede uno spostamento del titolo di studio dalla licenza media alla conclusione del biennio (la “certificazione”, come noto, viene rilasciata solo a richiesta dell’interessato): col bel risultato che il mondo del lavoro, persino quello pubblico, continua a riferirsi al titolo di conclusione della scuola media come al solo che attesti l’effettuazione dell’obbligo. Vedere, per credere, il bando – che campeggia in questi giorni in tutte le edicole – per l’assunzione di agenti di polizia in cui , si scrive a lettere cubitali , “basta la licenza media”. Eppure si sa che non basta, e non solo nella polizia.
Ma il problema è ancora più radicale, e sta in un nuovo obbligo di istruzione che si è sovrapposto a una struttura e a un profilo culturale e didattico della scuola secondaria superiore rimasto, nonostante tutte le revisioni ordinamentali, sostanzialmente identico a prima. Perché nel nostro paese anche gli istituti tecnici e professionali devono allinearsi al modello liceale, costi quel che costi. E perché anche l’organizzazione materiale della didattica dev’essere tale da costringere a replicare il modello trasmissivo dell’insegnamento. Bisognerebbe ripensarci a tutti questi aspetti e trovare soluzioni adeguate. I quasi tre milioni di ragazzi che, negli ultimi quindici anni – dato di Tuttoscuola – sono usciti precocemente dalla scuola secondaria superiore e che, almeno in parte, ingrossano le file dei NEET, sono lì a ricordarlo. Anche agli smemorati che, proprio in questi giorni, hanno inferto colpi ulteriori al già malridotto apprendistato formativo in diritto-dovere. Eppure, diceva qualcuno, è dalla quantità – e dalle origini sociali – degli esclusi che si deve valutare il profilo di efficacia e di democraticità degli apparati formativi.