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In cosa primeggia una scuola attenta alla persona

In cosa primeggia una scuola attenta alla persona

di Stefano Casarino (Docente di Materie Letterarie nel Liceo Classico e Presidente della Delegazione di Cuneo dell’A.I.C.C. Associazione Italiana Cultura Classica)

Il 10 febbraio la Scuola italiana è stata premiata a Vienna dalla Conferenza del “Progetto Zero”, organismo internazionale cha ha come obiettivo la realizzazione di un mondo con “zero barriere”, con questa motivazione:

Esemplare nelle aree dell’innovazione, dei risultati e della trasferibilità, la Legge-quadro n. 104 del 1992 per l’assistenza, l’inclusione sociale e i diritti delle persone con disabilità è eccezionale in quanto essa non soltanto prescrive che tutti gli alunni debbano essere inclusi nelle scuole di tutti gli ordini e grado (incluse le Università), sia pubbliche che private, e partecipare pienamente alla vita scolastica, ma soprattutto perché essa è stata applicata in tutto il Paese, che registra pertanto il più alto livello di inclusione delle persone con disabilità nelle classi ordinarie, e gode di un convinto consenso alla piena inclusione a livello nazionale.

Forse, però, non è stato dato adeguato risalto a tale riconoscimento: gli organi di stampa preferiscono parlare degli insuccessi del nostro sistema formativo nei test internazionali che da qualche tempo misurano le prestazioni (pardon, le competenze) degli studenti e lasciare in ombra quello che davvero caratterizza (continua a caratterizzare) la nostra scuola: l’attenzione e la cura alla persona – ad ogni persona! –, l’educazione, la formazione (e non l’informazione), l’insegnamento (e non l’addestramento).

In Spagna, in Gran Bretagna, in Germania, ci sono le “scuole speciali”. In ’Italia no: almeno in questo, rappresentiamo un modello.

Negli ultimi dieci anni gli studenti con disabilità nella nostra scuola sono aumentati di circa il 40%, sono oltre i 234.000; tra i progetti innovativi c’è lo “Sportello autismo”, attivato a partire da questo anno scolastico in 106 Centri Territoriali di Supporto (CTS).

Quattro storie di autismo sono raccontate, con straordinaria efficacia, nel libro “Il ragazzo che parlava con la luce” di Maurizio Arduino (Einaudi Torino, 2014): sono narrate dalla parte del terapeuta, del medico-amico, non del lucido diagnosta.

Quattro storie: tre di maschi, una sola di una bambina. Per quello che si sa sinora, in effetti, l’autismo colpisce molto di più i soggetti maschili e si manifesta quasi sempre entro i tre anni d’età. Tutte e quattro le storie iniziano in modo simile: il comportamento di Silvio preoccupa i genitori sin da quando ha un anno e mezzo e saranno le maestre del nido ad indirizzarli da un neuropsichiatra infantile che formula la diagnosi di un disturbo non curabile per il quale “non si poteva fare granché”; Cecilia a tre anni non parla ancora ed è il test comportamentale a confermare l’autismo; per Elia la diagnosi arriva tardi, alla fine della scuola materna; nel caso di Matteo il padre si rifiuta a lungo di ammettere che il figlio abbia dei problemi relazionali e anche in quel caso la diagnosi arriva un po’ tardi. Ma è con la diagnosi che si spalanca davvero un mondo di difficoltà e di avventure. E i problemi non si esauriscono certo col termine dell’infanzia e dell’adolescenza, anzi! “Per le istituzioni gli adulti con autismo sembravano non esistere”, scrive l’autore: usa un tempo passato, perché forse le cose ora stanno un po’ diversamente. Più avanti egli scrive: “Quello dell’assistenza dopo la maggiore età è un problema nazionale, sollevato più volte dalle associazioni dei genitori e dagli stessi operatori”.

In queste storie una grande ruolo lo svolge la scuola: tutti i diversi ordini di scuola, dal nido sino addirittura – nell’ultimo caso – all’Università.

Attraverso queste storie si racconta anche un’evoluzione didattica, un significativo progresso da un’iniziale impreparazione – o, peggio, da un iniziale disdegno col convincimento che “la scuola non fa terapia” – sino ad una encomiabile professionalità pedagogica non solo degli insegnanti di sostegno ma di tutto il corpo docente.

Anche lì, ovviamente, non mancano i problemi: Arduino segnala con precisione i ritardi e le disfunzioni dell’apparato centralistico che governa il nostro sistema scolastico: “l’insegnante definitiva arrivò solo a novembre”; “il perverso meccanismo delle graduatorie e delle supplenze produsse una rapida alternanza di maestre di sostegno, che per vari motivi, si fermavano uno o due settimane e cambiavano istituto”; “il passaggio di consegne tra le varie insegnanti non aveva funzionato e l’assenza di una formazione pedagogica sull’autismo aveva fatto il resto”, ecc…

Ma accanto a queste non poche ombre vi sono anche luci: “quell’anno scolastico fu formidabile. Silvio passava ormai la quasi totalità del tempo in classe ed era autonomo nello svolgimento di molte attività adatte al suo livello di sviluppo. La maestra Marina dedicava parecchio tempo a prepararle”; “la maestra diede un’ulteriore prova della sua competenza pedagogica” e via seguitando.

Ancora una volta, sono i singoli a mettersi in gioco, a supplire alle carenze e all’inefficienza di un sistema che pone i problemi ma non ha (non vuole o non sa trovare) le soluzioni. Sono l’impegno, la convinta dedizione dei docenti – di quelli almeno che non si fermano solo alla valutazione del profitto: nel caso di Matteo, ad esempio, che ha un Qi di 140, tipico della sindrome di Asperger, una forma di autismo ad alto funzionamento intellettivo, la dirigente si limita ad affermare che “era il primo della classe e non disturbava” – a rendere possibile l’inserimento, la vera inclusione nella classe dei ragazzi autistici. Ben aldilà dell’impegno contrattualmente richiesto, questi insegnanti si preparano con scrupolo, il più delle volte costruiscono da soli il materiale didattico indispensabile, affrontano i problemi con una tenacia persino eroica, che però mai ottiene l’attenzione della stampa.

E un ruolo fondamentale lo svolgono, ovviamente, anche i compagni: anche se non mancano gli episodi di bullismo, in generale prevalgono le considerazioni positive, progressivamente si crea un clima di accettazione e di dialogo, di cooperazione.

Tutto questo è reso possibile solo guardando in faccia la realtà, senza minimizzare affatto le difficoltà: chi soffre di autismo è innamorato della routine e viene facilmente messo in crisi dalla minima novità; può avere improvvise, incontrollate crisi di collera e di violenza (“un giorno ruppe una vetrata con un pugno e colpì con una testata una compagna, che dovette essere portata al pronto soccorso, quello successivo tirò i capelli alla sua insegnante di sostegno fino a staccarle una ciocca”; “insegnante di sostegno al pronto soccorso con un occhio malconcio, compagni terrorizzati e genitori furenti”); è spesso affetto da ecolalia (ripetizione di frasi e di parole) e da ecoprassia (ripetizioni di gesti e comportamenti); è possibile si sviluppino crisi epilettiche;, ecc…

Le storie raccontate da Maurizio Arduino, ovviamente, non finiscono davvero: però, Matteo si laurea con 110/110 in Matematica; Elia corre gli 800 m. in una competizione nazionale; Silvia lavora in un vivaio e sa a memoria tutti i nomi latini delle piante; Silvio viene invitato al matrimonio della sua amica d’infanzia.

Non si tratta, secondo me, di happy endings: piuttosto della segnalazione, convinta, appassionata, che vi sono altri possibili linguaggi con cui comunicare, oltre a quello verbale, perché “il linguaggio non è tutto, a darti la sensazione che esisti per l’altro contribuiscono gli sguardi, la mimica del volto e altri segnali”.

Tutto questo – almeno a parere di chi scrive – dovrebbe essere il vero fulcro di qualunque insegnamento: la preoccupazione per lo studente, per qualunque studente; il contribuire in tutti i modi possibili a farlo stare bene con sé stesso e con gli altri.

Perché solo così si può crescere e migliorare. E perché, se ciò non avviene a scuola, è impensabile che possa avvenire altrove.

Scuola democratica
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