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Intrecciare Education e Welfare: un commento a partire dall’incontro sul numero speciale di Scuola Democratica

Intrecciare Education e Welfare: un commento a partire dall’incontro sul numero speciale di Scuola Democratica

di Andrea Ciarini (Dipartimento di Scienze Sociali ed Economiche, Roma)

Quanto e in che misura i filoni di studio sui temi dell’education e sul welfare tornano oggi a intrecciarsi dopo anni nei quali entrambi avevano proceduto su binari paralleli, senza una effettiva integrazione dei rispetti campi disciplinari? E che cosa hanno da dirci rispetto ai grandi cambiamenti che riguardano il mercato del lavoro, le strutture produttive e la domanda stessa di protezione sociale? Quali ricadute e quali politiche immaginare per una integrazione virtuosa di questi due ambiti, non solo in Italia ma anche in Europa da qui al prossimo futuro? Inoltre, se di superamento di steccati disciplinari si può parlare, è questo il prodotto di mutamenti strutturali, legati cioè alla struttura dell’economia e alla transizione verso la cosiddetta economia della conoscenza, oppure anche di cambiamenti culturali riguardanti aspirazioni e motivazioni dei soggetti? Su queste e altre questioni lo special issue di Scuola Democratica curato da Massimo Paci entra nel vivo di un dibattito aperto e molto articolato al proprio interno. Tra primato del welfare e dell’educazione, tra condizionamenti strutturali e soggettività, tra domanda e offerta di lavoro. Sono poli di un dibattito, tutti questi, che da diverse prospettive chiamano in causa tanto le istituzioni del welfare, quanto quelle educative (in tutte le loro articolazioni). Molto diversi sono però i modi di concepire questi rapporti, con ricadute di non poco conto sulle opzioni e sugli strumenti di intervento in capo ai policy makers. La presentazione dello special issue è stato da questo punto di vista un buon modo di mettere insieme e fare dialogare tra loro prospettive di analisi distanti tra loro, pur essendo tutte dentro il problema del nuovo welfare e delle nuove politiche per l’educazione permanente. Nicola Cacace, Luisa Ribolzi, Giovanni Battista Sgritta, Maria Luisa Mirabile hanno restituito nei loro interventi questa grande articolazione di posizioni e a ben dire anche le contraddizioni che soggiaciono a molta della retorica dominante circa la strategicità della educazione permanente ai fini della crescita dell’economia. Soprattutto in un paese come l’Italia, ancora fortemente in ritardo sulla strada del definitivo decollo di una moderna economia dei servizi. Questa prospettiva è ancora lontana dall’essere raggiunta nel nostro paese, per via dei condizionamenti negativi dati dalla persistenza di produzioni manifatturiere a basso valore aggiunto, con pochi laureati al confronto dei principali paesi europei, e pur tuttavia con alta disoccupazione, soprattutto tra i giovani più istruiti. Le storture di un mercato del lavoro in cui trova più spesso spazio una domanda di lavoro poco qualificato e in cui i servizi a più alto valore aggiunto sono strutturalmente sottodimensionati, sono certamente tra i principali nodi irrisolti della transizione italiana verso l’economia della conoscenza. Prova ne siano i dati relativi agli investimenti pubblici ma soprattutto privati in ricerca e sviluppo, bassi in Italia anche rispetto alla media Ue a 27 e non solo rispetto a paesi come Francia, Germania, fino a tutto il versante scandinavo. Ma i problemi non riguardano solo la domanda di lavoro. Ai fini del prodursi dei circuiti di bassa crescita e bassi investimenti in formazione non meno importanti sono le istituzioni del welfare, ancora in Italia ben lontane da quei paesi che dell’investimento nella educazione lungo tutto l’arco della vita hanno fatto il perno di una visione “produttiva”, in grado cioè di generare crescita, del welfare. Anche qui tuttavia non mancano le contraddizioni, a cominciare dal paradigma del social investment. Se in Europa esso si è ormai affermato come modello di riferimento per l’integrazione tra welfare e education, così come promosso anche dalla nuova strategia europea per l’occupazione (codificata nel nuovo programma Europa2020) ciò non significa che le sue esternalità sia tutte di segno positivo. La via tracciata dal social investment presuppone infatti scelte di bilancio non neutrali rispetto agli effetti delle politiche, tanto più in un quadro di stringenti vincoli di bilancio come quello che grava attualmente su tutti i paesi europei. Ad esempio: quanto e come il social investment può contribuire a migliorare la resa del welfare, senza che gli effetti di tali scelte producano un arretramento della protezione sociale per chi è escluso o poco partecipe dei vantaggi garantiti da una buona educazione? Chi beneficia di più da questo spostamento di risorse dalle vecchie protezioni passive verso i nuovi servizi attivanti? Ma anche, quale ruolo autonomo per le politiche educative e per gli individui, così come per le famiglie, in una visione produttiva dell’intervento sociale? A chi tra i due poli della produzione e della riproduzione il primato rispetto alle scelte di politica educativa e per la formazione? Su queste domande l’interlocuzione dei relatori ha molto contribuito a entrare sul terreno delle policy, in un rimando costante tra gli assunti del dibattito teorico sul prodursi di vecchi e nuovi dualismi nella società della conoscenza e gli strumenti con i quali mitigare questi esiti. Quello dell’integrazione tra welfare e education è ancora un terreno incerto, certamente non affrontabile secondo ottiche di analisi troppo definitorie. E questo a ben vedere non fa altro che alimentare le ragioni di un confronto che la rivista potrà riprendere anche in futuro.

Scuola democratica
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