Investire in capitale umano per stimolare la crescita
di Floro Ernesto Caroleo e Francesco Pastore
Per commentare l’andamento del mercato del lavoro i mass-media e i politici citano i tassi di disoccupazione. In verità già i confronti tra le regioni europee su questi dati sono di per sé impietosi e tuttavia non danno una misura esatta del divario “strutturale” che esiste tra i vari paesi e tra le due parti del paese. Il motivo principale per cui il tasso di disoccupazione non può essere considerato un indicatore del divario strutturale è che, per come è definito e costruito, esso è piuttosto un indice congiunturale del mismatch tra domanda e offerta di lavoro.
Meglio sarebbe riferirsi al tasso di occupazione. Per capire meglio diamo qualche numero. Su cento persone tra i 15 e i 64 circa 65-66 sono occupate nel nord dell’Italia mentre 44-45 sono occupate al Sud. Se guardiamo alle altre regioni d’Europa, quest’ultimo dato è abbastanza impressionante. Infatti, solo sei regioni Europee hanno un tasso di occupazione al di sotto del 50% e di queste 4 sono italiane. Inoltre il divario tra la regione con il più basso tasso di occupazione europeo (la Calabria) e la regione con quello più alto (la provincia autonoma di Bolzano) e di più di 36 punti percentuali. Su cento donne 56-57 sono occupate al Nord e 30-31 al Sud. In Svezia il tasso di occupazione femminile tra le donne che hanno 20-64 anni è del 78%.
Possiamo quindi trarre una prima conclusione: nel Mezzogiorno (ma anche in Italia, se confrontata con il resto dell’Europa) ci sono troppo pochi occupati. Ed è un fatto noto a tutti che l’occupazione si crea attraverso la crescita economica e gli investimenti. Infatti, tutti i documenti ufficiali di programmazione economica iniziano con questo cappello. Tuttavia quando poi si va alle ricette per raggiungere questo obiettivo, le parole investimenti e occupazione spariscono.
Guardiamo per esempio cosa intende per politiche per l’occupazione chi si occupa di mercato del lavoro.
A livello internazionale vi è un ampissimo consenso, che ormai si è consolidato a partire dagli anni 80, su una ricetta abbastanza semplice, valida in tutte le stagioni sia in periodi di crescita occupazionale che in periodi di crisi come quello odierno, basata sull’idea i problemi dell’occupazione possono essere risolti favorendo il più possibile la flessibilità istituzionale e salariale.
Il ragionamento è più o meno questo: la disoccupazione odierna (attenzione! non la scarsa occupazione ma la troppa disoccupazione) è dovuta alla rigidità del mercato del lavoro. Regole sui salari minimi, sui licenziamenti e maggiori sussidi di disoccupazione, in sostanza un sistema troppo rigido di leggi che regolano i rapporti di lavoro si traducono in rigidità salariale e quindi non fanno altro che aumentare il costo del lavoro per le imprese (insomma, per intenderci, ci sono troppi articoli 18 in giro).
Quale è la soluzione? Bisogna adottare politiche di flessibilità volte alla salvaguardia delle imprese. Facendo sì che il lavoro sia meno costoso; questo rende più facile l’assunzione dei lavoratori e, alla fine, non potrà che beneficiarne anche l’occupabilità (altra parola chiave molto di moda in Europa che (attenzione!) non significa maggiore occupazione).
A ben vedere tutti quei termini coniati in questi anni da ministri vari: ‘choosy’, ‘bamboccioni’, ‘è meglio sposare un riccone che cercare lavoro’, ‘andate a giocare a calcetto’, ‘chi va a lavorare all’estero è meglio che ci rimanga’ ecc.) non sono altro che il naturale modo di pensare di chi crede in questo ragionamento. Sono i lavoratori e i giovani che non si adeguano alla necessità di essere flessibili e guadagnare di meno. Se lo facessero, le imprese sarebbero disponibilissime ad assumere.
Per citare una metafora ben nota: è come se per fare lavorare un cavallo si pensasse che basti dargli acqua. Gli economisti, i giuristi, gli esperti in organizzazione, tutti fanno a gara a suggerire l’acqua più buona: quella di pozzo (contratti temporanei), quella corrente (contratto a tutele crescenti), l’acqua minerale (abolizione dell’art. 18), ecc. E se il cavallo non avesse sete? Ovvero se fosse proprio la domanda di lavoro a essere carente e le imprese restie ad investire?
In realtà, nessuna riforma del lavoro ha mai creato un solo posto di lavoro, ma ha solo redistribuito il lavoro fra categorie diverse di lavoratori, cambiando le convenienze sul tipo di contratto da usare per le assunzioni.
La questione, sempre per chi si occupa dei temi del lavoro, è se sia possibile avere un differente approccio al problema strutturale dell’occupazione e che tipo di investimenti si possono suggerire che abbiano un rendimento elevato e si possono autofinanziare.
Per dare una risposta semplice a questa domanda possiamo guardare ad un altro dato: su 100 persone tra i 25 e i 64 anni che hanno al massimo la licenza media, al Nord sono occupate in 60 e al Sud in 40. Tra quelle, invece, che hanno il diploma, 79 sono occupate al Nord e 61 al sud. Mentre tra i laureati, 83 al nord e 72 al Sud. Lo stesso vale per le donne: tra quelle che hanno la licenza media 44 sono occupate al Nord e 20 al sud; tra quelle che hanno il diploma 73 al Nord e 47 al Sud; tra le laureate 79 sono occupate al Nord e 67 al Sud.
La seconda conclusione è, quindi, che l’istruzione paga in termini di maggiore probabilità di occupazione. Esiste pertanto una strada percorribilissima per affrontare il problema dell’incentivo all’investimento e all’occupazione: investire in capitale umano.
Il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, su questo punto ha affermato: “Il capitale umano, l’investimento in conoscenza rappresentano una delle variabili chiave della nostra azione di politica economica. I loro rendimenti economici sono indubbi, per gli individui e per la collettività. Sono importanti per i loro effetti diretti sulla produttività. Lo sono per quelli indiretti che si manifestano nell’interazione tra gli individui, attraverso la crescita del senso civico, il rispetto delle regole e l’affermazione del diritto, il contrasto della corruzione e della criminalità – tutti fattori che costituiscono un freno a una crescita economica sostenuta e continua”.
La stessa Europa 2020, il programma ispirato alla strategia di Lisbona dell’Unione Europea, punta molto al capitale umano chiedendo una riduzione del tasso di abbandono della scuola dell’obbligo, ancora intorno al 18% in Italia, e all’aumento delle quote dei diplomati e laureati-
Tutte ricerche in questo campo concordano nel sottolineare come i rendimenti degli investimenti in istruzione (sia secondaria che terziaria) sono più alti dei rendimenti degli investimenti in infrastrutture. Alcune ricerche, poi, hanno evidenziato come questi investimenti possono giocare un ruolo chiave per lo sviluppo delle regioni meridionali. Inoltre, si può dimostrare come gli incentivi finanziari agli investimenti in istruzione e le spese pubbliche connesse nel lungo periodo hanno la capacità di autofinanziarsi. I tempi sono anche importanti. Se infatti non si procede in fretta a riformare il sistema di istruzione per adeguare il capitale umano alle nuove esigenze produttive a alle nuove tecnologie si corre il rischio (già divenuto concreto) di far deperire velocemente quello esistente.
Ovviamente non si tratta solo di un problema di obiettivi quantitativi come per esempio aumentare la quota della spesa in istruzione sul PIL. Anche se, in verità, schiodare l’Italia dal penultimo posto (prima della Romania) nella classifica dei paesi europei con il più basso tasso di laureati sulla popolazione sarebbe già un obiettivo ‘macroeconomico’ che farebbe tremare i polsi ad un qualsiasi governo che si autodefinisca degnamente riformista. Il problema è anche puntare agli aspetti qualitativi dell’investimento.
Se si dovesse, per esempio, discutere sugli investimenti in istruzione universitaria si potrebbero prendere in considerazioni due problematiche:
L’organizzazione dell’università di oggi è il frutto del cosiddetto processo di Bologna. (organizzazione del ciclo universitario 3+2, ecc.) Lo scopo, oltre che abbreviare i tempi di conseguimento del titolo di studio e ridurre gli abbandoni, era anche di coniugare la preparazione metodologica-culturale con una formazione fortemente professionalizzante al fine di dare la possibilità allo studente di inserirsi immediatamente nel mondo del lavoro. A distanza di più di 15 anni dalla riforma non sembra che questo aspetto della riforma sia stato ancora raggiunto. In altri termini, sia il corpo docente che il sistema universitario nel suo complesso, non sembrano aver compreso a pieno come i vari cicli (3,2, master, dottorato ecc.) debbano essere strutturati al fine di raggiungere un miglior collegamento con il mercato del lavoro in ciascun di essi. In sostanza si ragiona ancora come se l’istruzione universitaria debba essere a ciclo unico. L’esempio più eclatante è il ritorno al ciclo unico della laurea in Giurisprudenza. Se quindi si volesse investire nel sistema universitario sarebbe utile programmare corsi di studi, a partire da quelli di primo livello, professionalizzanti, ovvero volti a fornire competenze professionali immediatamente spendibili nel mercato del lavoro. In questo modo, come è intuibile, si raggiungerebbe l’obiettivo del processo di Bologna di abbreviare i tempi per la laurea con un indubbio beneficio in termini di costi economici e sociali.
La seconda problematica che dovrebbe essere affrontata deriva dalla definizione di capitale umano. Esso è l’insieme di capacità acquisite, saperi accumulati e attitudini che rendono l’individuo maggiormente produttivo. E’ anche abbastanza nota la relazione stretta tra istruzione e capitale umano. Tuttavia considerare unicamente queste due variabili, trascura altri fattori che incidono fortemente sui processi di formazione e valorizzazione delle potenzialità di un individuo, come l’accumulo di esperienze lavorative -l’altro corno del capitale umano-. Il problema dei giovani che escono dal sistema scolastico e universitario è che, nel processo di transizione scuola-lavoro, devono affrontare un tipico problema di gap di competenze. In altre parole, a parità di livelli di istruzione, essi soffrono di mancanza di esperienza lavorativa generica (disciplina al lavoro, rispetto degli orari, lavoro di gruppo, ecc.) e, soprattutto, di quella specifica ad un determinato posto di lavoro (conoscenza del processo produttivo e delle tecnologie usate), che la scuola e l’università non fornisce loro.
Ma anche in questo caso bisogna fare dei distinguo. E’ il sistema universitario italiano che non è attrezzato per fornire esperienze professionalizzanti ai giovani già durante il loro percorso educativo. Vi sono paesi in Europa, quali la Germania, che invece adottano sistemi di formazione di tipo duale in tutti i gradi di istruzione, ovvero una formazione basata sull’alternanza tra formazione in aula ed esperienza sul posto di lavoro. In altri termini, in questo modo la transizione tra scuola e lavoro è resa più agevole dal momento che già durante il percorso scolastico i giovani possono acquisire esperienze lavorative che sono immediatamente spendibili nel mercato del lavoro. Non è un caso, infatti, che in Germania il tasso di occupazione dei giovani è tra i più alti in Europa e il tasso di disoccupazione è tra i più bassi vicino a quello degli adulti. Se si dovessero ‘spendere’ delle risorse in investimenti in capitale umano, sarebbe auspicabile che si rafforzasse la funzione di orientamento e la progettualità in tirocini formativi, stage ecc. dell’Università. I benefici, come detto, riguarderebbero il miglioramento della transizione tra università e mondo del lavoro ma anche l’incentivo a creare una rete di rapporti e di scambio di conoscenze con il sistema delle imprese.
In Italia, nell’ultimo anno si è introdotto con la legge sulla Buona scuola il principio dell’alternanza scuola lavoro nell’istruzione secondaria (riforma praticamente a costo ‘zero’). La speranza è che un nuovo governo non azzeri questo progetto e che anzi venga finanziato adeguatamente: Quali sono le conseguenze per l’Università? Se il sistema universitario non si attrezza per introdurre questo principio nei suoi ordinamenti corre il rischio che tra qualche anno avrà iscritti, che hanno avuto nel ciclo secondario una qualche esperienza lavorativa e di rapporto con il mondo del lavoro, che verranno ricacciati per ulteriori cinque anni dietro ad un banco.