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La scelta scolastica senza valutazione

La scelta scolastica senza valutazione

di Luisa Ribolzi (sociologa, già vicepresidente Anvur)

in risposta all’articolo Dialogo sul finanziamento pubblico alle scuole paritarie

Nel dibattito sulla scelta, in Italia ci si trova a fare in conti con una chiara definizione dei termini, e con la mancanza di informazioni quantitative e dati di ricerca. Provo a riordinare qualche idea. Nella maggior parte dei paesi, l’allocazione dei bambini alla scuola è fatta sulla base della residenza, con il territorio diviso in bacini d’utenza, la cui rigidità è diminuita in ragione del calo demografico, per cui le scuole competono per non perdere utenti. Questa misura, inizialmente finalizzata a potenziare il legame con il territorio e ad evitare la fuga verso le “buone scuole” ha avuto la conseguenza perversa di creare delle scuole-ghetto, rischio tanto più forte quanto maggiore è la segregazione abitativa. Le scuole collegate ai territori in cui c’è una particolare densità di gruppi svantaggiati (socio economici o etnici) perdono progressivamente gli studenti provenienti dalle classi medio alte, con tutti i problemi che ne conseguono: tassi di fallimento più elevati, problemi di disciplina, maggior presenza di ragazzi con situazioni famigliari problematiche, elevato turnover degli insegnanti e impossibilità di utilizzare un peer effect positivo.

La scelta scolastica, cioè essenzialmente la possibilità di legare l’assegnazione degli scolari non alla zone di residenza ma alla scelta delle famiglie, è stata dunque proposta anche come soluzione ai problemi di disuguaglianza, in base all’ipotesi che una scuola di scelta sia più coerente con i bisogni dei ragazzi, espressi attraverso le famiglie, e quindi una proposta educativa mirata e non standardizzata riduca i rischi di fallimento. L’implicazione di questa proposta è che le singole scuole abbiano una caratterizzazione e obiettivi specifici e dichiarati che le rendano attrattive per i genitori, siano quindi scuole realmente autonome. Poiché in Italia fino all’entrata in vigore dell’autonomia vigeva il falso mito che le scuole fossero tutte uguali, la scelta pareva essere, a prescindere da qualsiasi altra considerazione, un meccanismo inutile, e veniva vissuta come un lusso che le famiglie erano tenute a pagarsi.

Quando finalmente, a seguito dei concordi risultati delle ricerche, ci si è resi conto che la scuola unica di stato non riduceva affatto le disuguaglianze, si è cercato di potenziare e rendere desiderabili le scuole deboli, con sperimentazioni del tipo delle ZEP francesi. La maggiore presenza di studenti “avvantaggiati” nelle scuole ghetto è stata molto limitata, ma l’esito positivo è stato quello di un miglioramento del servizio educativo offerto agli studenti che restavano: ma la sperimentazione è stata circoscritta, e non ha avuto una valutazione sistematica. La scelta fra statale e statale allargata a tutti, che gli americani chiamano “scelta generalizzata”, in cui tutte le famiglie indicano tre o quattro scuole in ordine di preferenza, non è stata presa in considerazione, sia perché comporta spese supplementari di trasporti e mensa, che non vengono coperte dallo stato, sia perché diventa necessario potenziare l’informazione per consentire anche alle famiglie povere di compiere una scelta razionale, che già avviene sulla base non di indicatori oggettivi ma della reputazione della scuola.

In linea di massima, uno volta caduto o attenuato il vincolo del bacino di utenza, la sola condizione indispensabile perché la scelta possa avvenire è l’esistenza di più scuole dello stesso tipo facilmente raggiungibili, cosa che in un tessuto abitativo disperso come quello italiano non è sempre possibile. Le resistenze alla scelta statale / statale sono date dal fatto che se si liberalizzasse interamente la frequenza, si avrebbero scuole con un eccesso di richieste e scuole rifiutate, contraddicendo quel mito dell’uniformità di cui parlavamo, e diventerebbe molto più complicato programmare le variabili collegate alla numerosità degli alunni, a partire dal reclutamento dei docenti (ragione in più per lasciarlo alle scuole, perché costituisce un elemento negativo di rigidità).

Venendo all’accezione più comune1, si intende però per scelta la possibilità di mandare i propri figli in una scuola non statale: questa scelta può avvenire a parità di condizioni, o comportare maggiori costi, come avviene in Italia dove la Costituzione e la legge 62 prevedono la presenza di scuole private accanto a quelle statali, ma con un aggravio economico per chi sceglie la scuola non statale. E’ ovviamente sempre possibile quella alcuni definiscono “scelta dei benestanti”, in quanto, indipendentemente dalle politiche, chi de lo può permettere sceglie la scuola andando ad abitare dove c’è una buona scuola statale, mandando i figli alla scuola privata oppure ricorrendo all’home schooling che, poco diffuso in Italia, sta incontrando un crescente successo negli Stati Uniti. Ma se la scelta comporta una penalizzazione economica (sulla cui entità in questa sede non mi dilungo), ne consegue che le scuole paritarie sono per lo più frequentate da ragazzi di origine sociale medio alta.

Le famiglie compiono questa costosa scelta non sempre, o non solo, per garantire ai loro figli una migliore qualità degli apprendimenti, ma per un ventaglio di ragioni, ad esempio per fornire loro un ambiente più sicuro, per garantire l’accesso a reti sociali più qualificate, per avere un maggiore spazio di partecipazione sia nella formulazione dei programmi che in fase di controllo. La maggior parte delle ricerche comparse negli Stati Uniti negli ultimi venti anni2 sugli effetti del sostegno alla scelta indica fra gli elementi di soddisfazione delle famiglie, la qualità dell’insegnamento e la coerenza dell’impostazione educativa con i valori famigliari, ma anche la sicurezza, la cura dei ragazzi, la collaborazione con gli insegnanti, la presenza di iniziative che creano camaraderie fra le famiglie. I motivi di soddisfazione variano con la classe sociale, la zona di residenza, le aspettative (che spesso gli insegnanti non conoscono o non si pongono il problema di conoscere). In genere, i genitori che hanno i figli nelle scuole paritarie sembrano essere più soddisfatti di quelli delle scuole statali, ma appunto, “sembrano”.

E’ curioso notare che questi motivi di soddisfazione, che sembrano meno presenti nella scuola statale, costituiscono però anche lì obiettivi educativi spesso espliciti: ma in Italia non si è mai fatto un serio confronto fra i livelli di efficacia e di efficienza dei diversi tipi di scuola3, e nemmeno sulla soddisfazione degli utenti, anche perché non ci sono le condizioni per una ricerca scientifica, che si basa sull’identità dei due campioni. Si riconosce dunque alle scuole paritarie il carattere pubblico, in virtù di una coerenza di obiettivi oltre che in presenza di determinati requisiti strutturali, di personale e di programmi, ma si conclude con lo scaricarne per intero i costi sulle famiglie.

Purtroppo, questa considerazione sulla non valutazione nel settore dell’educazione non si limita al confronto statale / paritaria: in Italia è in atto una riforma senza fine iniziata quasi vent’anni fa, e mai valutata: anche quando gli obiettivi erano chiari, non c’è stato il tempo di capire se i cambiamenti proposti funzionavano, e del resto una valutazione non era prevista Lo scopo di una riforma, grande o piccola che sia (noi amiamo le riforme a cui possiamo attribuire un valore salvifico) è quello di migliorare la scuola. Ma come si fa a dire se abbiamo ottenuto, se non una “buona” scuola, quantomeno una scuola “migliore”, se non esiste un piano di valutazione degli esiti, esiti che vanno posti in relazione agli obiettivi e articolati in una precisa scansione temporale? Se l’obiettivo della riforma degli istituti tecnici è quello di migliorare l’impiegabilità dei diplomati, non si potrà dirlo se non dopo almeno sei – sette anni dall’avvio, anche se in itinere si possono ritoccare aspetti che non funzionano: ma, anche qui, il concetto di rolling reform, riforma che si auto corregge, non è mai stato accettato. Tutto va dettagliatamente previsto.

Il fatto è che il vero agente di cambiamento non è una riforma, piccola o grande che sia, ma la scuola che la mette in atto, ed è a partire dalla valutazione delle scuole che si può arrivare a capire se una riforma ha avuto successo o no.

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Scuola democratica
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