Media, saperi e didattiche
di Roberto Maragliano (Professore di Tecnologie dell’Istruzione e dell’Apprendimento presso l’Università Roma Tre)
Dal Seminario annuale di Scuola Democratica “Verso quali scuole”
Nel mio intervento ho sostenuto la tesi di una duplice funzione delle tecnologie della comunicazione (che comunque preferisco chiamare media): la funzione che si fa coincidere con il loro ruolo di agenti e quella in cui il ruolo riconosciuto è di specchi.
Nel primo caso i media sono intesi come capaci di incidere sugli atteggiamenti e sui comportamenti degli individui e dei gruppi, contribuendo in un qualche modo a condizionarli se non proprio a determinarli; nel secondo sono intesi come capaci di rendere manifesti atteggiamenti e comportamenti degli individui e dei gruppi preesistenti all’avvento dei media stessi, e che dunque non dipendono dalla loro azione se non per il fatto che è quell’azione stessa a renderli manifesti, da nascosti o comunque non evidenti che erano prima. Generalmente però, se almeno si fa riferimento all’intellettualità nazionale nel suo complesso, includendovi dunque anche la parte che opera dentro la scuola o nei suoi paraggi, alla componente di agenti è dedicata un’attenzione ben superiore rispetto a quella dedicata alla loro funzione di specchi: ed è un atteggiamento, questo, che subisce e al tempo stesso sancisce la propensione “apocalittica” (espressione abusata, lo so: ma rende l’idea) di tanta parte dei discorsi correnti di critica ai media. Discorsi che, sarà bene chiarirlo subito, frequentemente provengono da una famiglia di media (quelli che fanno capo alla stampa, ossia libri e periodici) e da questa sono indirizzate ad altre famiglie (segnatamente, i media dell’audiovisione, cioè cinema radio tv, e i media digitali e di rete, ossia computer cellulari tablet).
La distinzione di cui ho appena detto non va vista nella sua accezione “accademica”, quanto cioè la renderebbe appropriata ad un confronto pacato e disinteressato sui rapporti fra tecnologia e apprendimento, insegnamento, cultura. No, ciò che mi interessa porre in evidenza qui è che si tratta di una distinzione “politica”, capace di giustificare e mettere in atto schemi di interpretazione e di intervento anche profondamente diversi tra di loro. Non solo. Tale distinzione si intreccia, così ho cercato di mostrare nel mio intervento, con un’altra, significativamente volta a distinguere tra la natura dell’innovazione così come normalmente si qualifica dentro l’ambito tecnologico e la natura dell’innovazione che è invece tipica dei certe fasi di passaggio dentro i settori scientifici ed artistici. Nel caso della tecnologia l’innovazione procede per gradi, secondo un andamento che, una volta compresa la natura dei media presi in considerazione, risulta in buona parte prevedibile, mentre così non è nell’ambito delle scienze e delle arti, dove l’innovazione avviene tramite esplosioni, largamente imprevedibili.
Così, riflettendo a ciò che è oggi la tecnologia digitale e soprattutto a come si è andata sviluppando fin qui non è da escludere, anzi è da prevedere con una certa sicurezza che nel prossimo futuro seguirà questa via di progressivo incorporamento delle sue funzioni negli oggetti che usiamo, negli ambienti che viviamo, in noi stessi come soggetti. Mentre nessuno è in grado di prevedere, con altrettanta sicurezza, quali saranno le prossime svolte della ricerca scientifica o quelle della produzione artistica. Una sola cosa sappiamo, che se svolte saranno porteranno scompiglio.
Detto questo, un ulteriore elemento di chiarimento concettuale, e non soltanto terminologico, che ho inteso introdurre porta a distinguere, nel campo semantico messo in azione dai media e dai loro apparati terminologici, tre diverse zone: quella dove prevale l’idea di “strumento”, tutt’oggi la più battuta, e le altre due, una centrata sull’accezione di “ambiente” e l’altra sull’accezione di “infrastruttura”. Se ci si rappresenta i media come strumenti, è inevitabile che su tutto prevalga il loro essere equiparati a veicoli neutri, cioè semplici mezzi di trasporto, in quanto tali indifferenti alla natura degli aggetti trasportati (i cosiddetti “contenuti”) ma, eventualmente, sensibili solo al dato di quantità. Diverso è il caso in cui i media siano equiparati ad “ambienti”: ciò significa che i soggetti che li abitano svilupperanno, con gli oggetti che li arredano, dei rapporti coerenti la qualità, dunque con la conformazione di tali ambienti, ricavandone impressioni, conoscenze, abitudini. E un discorso ancora più diverso viene a svilupparsi se al di sotto di ciascuna famiglia di media ci attrezziamo a cogliere l’azione di un’infrastruttura (cioè quanto dà coerenza ed omogeneità all’azione dei media che la compongono) in prima istanza di tipo materiale ma destinata a diventare via via, tramite l’uso, infrastruttura sociale e mentale, vale a dire modo collettivo di agire e modo individuale di pensare.
A seconda che, nel trattare i media come risorsa per l’educazione prevalga o l’una o l’altra accezione le pedagogie di riferimento potranno risultare anche molto diverse tra di loro.
Le considerazioni che seguono sono strettamente connesse alla chiave interpretativa centrata sull’idea di infrastruttura.
Inizialmente ho fatto notare come nello scenario attuale siano presenti tre infrastrutture, cui corrispondono tre diverse rappresentazioni dell’esperire e del conoscere il mondo: l’infrastruttura stampa, che presenta il sapere in forma di testo scrittorio, univoco e chiuso e in quanto tale scomponibile, analizzabile e ordinabile in sequenze mentali; l’infrastruttura dell’audiovisione, dove il sapere, tendenzialmente globale e costitutivamente legato alle dimensioni corporali, scaturisce da un rapporto immersivo con l’universo dei suoni e delle immagini in movimento; e, infine, l’infrastruttura di rete, con il sapere che le è proprio, caratterizzato da operatività, interattività, reticolarità. Vanno poi aggiunti, ed è qui che la problematica investita si fa più delicata, due ulteriori elementi di concettualizzazione.
Primo. I media delle prime due infrastrutture (stampa e audiovisione) operano secondo i meccanismi della comunicazione di massa (tecnicamente: un’emittenza univoca e una destinazione teoricamente illimitata, omologata dalla comunicazione stessa), mentre quelli della terza infrastruttura (digitale e rete) sono portatori di un’istanza azione/trasformazione teoricamente distribuita su tutti gli agenti della comunicazione e centrata di volta in volta su chi, individuo o gruppo, svolge il ruolo di attore.
Secondo. Con riferimento ai codici adottati, i media della stampa risultano univocamente segnati dal ruolo centrale e tendenzialmente esclusivo attribuito alla lingua scritta, e quelli dell’audiovisione (lo dice il termine stesso) fanno leva sui codici acustici ed iconici, riconoscendo un ruolo marginale alla scrittura; infine, i media digitali operano tramite un codice costitutivamente e intrinsecamente multimediale, dove a nessuno dei componenti è riconosciuta superiorità materiale, culturale, concettuale rispetto agli altri.
Ora, per un buon tratto di storia del Novecento stampa e audiovisione hanno potuto convivere, in un qualche modo dividendosi compiti e ruoli (la stampa tramite il suo coincidere in tutto e per tutto con l’azione della scuola, l’audiovisione gestendo una parte sempre più sostanziosa e diffusa della comunicazione sociale), e mantenendo le dimensioni del conflitto in una sorta di latenza (significativa, a questo proposito, è la sottovalutazione, da parte dell’intellettualità nazionale, aristocraticamente e ingenuamente libresca, di natura e realtà comunicativa proprie del mezzo televisivo: disattenzione colpevole, che abbiamo tutti pagato nei modi che sappiamo). Detto con la formula che ho inteso introdurre all’inizio del mio ragionamento, ciascuno dei due assetti mediali, stampa e audiovisione, è andato sviluppandosi gradualmente, sul piano tecnologico, ma anche mettendo sempre più in evidenza, dunque rispecchiando parti di realtà altrimenti non visibili: checché se ne possa dire, tramite il formato stampa l’uomo non ha voluto/saputo vedere ciò che il formato video metteva in luce di se stesso, e viceversa.
Ma, come ho detto, le due istanze hanno potuto evitare di entrare in conflitto vuoi perché rispondevano (e rispondono) allo stesso meccanismo di comunicazione di massa vuoi perché agivano (e tuttora agiscono), in linea di principio, su zone diverse di realtà. La scuola non ri-conosce la televisione, la società televisiva non si ri-conosce nella cultura scolastica. E, infatti, la scuola ufficiale del libro non si apre alla scuola informale della televisione, né questa sente il bisogno di rapportarsi, se non molto marginalmente, a quella. L’equilibrio di un simile assetto salta con l’avvento della rete, un’infrastruttura più potente e inclusiva e capace di agire più in profondità delle altre due. Rapidamente quella di rete si è imposta nel mondo come infrastruttura dominante, che sottostà a tutte o quasi le forme di transazione umana (economica, culturale, materiale, relazionale) non escluse quelle che vedono come attori quanti abbiano scelto di non usare attrezzi digitali. Si è in rete comunque, anche se non lo si vuole.
Per questa semplice ragione la scuola non poteva né ha potuto opporsi ad un ingresso dei media di rete al suo interno. Ha consentito che ciò avvenisse prima sul piano amministrativo, poi su quello comunicativo, ora è di fronte al problema di accettare che la digitalizzazione tocchi e uniformi a sé, almeno in parte, i temi del che cosa e del come insegnare e far apprendere.
Ma qui, occorre riconoscerlo, il passaggio al digitale, già acquisito sul versante dell’amministrazione e su quello della comunicazione, sta incontrando non solo rallentamenti ma veri e propri ostacoli.
Perché avviene questo?
Certo, c’è da tener conto dell’ideologia dominante nel nostro paese (ma non solo). Come diceva quel tale, è l’ideologia delle classi dominanti. E mi pare fuori di dubbio che parlando di scuola una classe dominante tutt’ora ci sia e che sul suo pensiero (nonché sul suo modo di pensare e gestire le discipline, gli orari, lo studio, la valutazione) convergano concordemente pezzi rilevanti di amministrazione, editoria, accademia. È altrettanto fuori di dubbio che in quel pensiero si registri una sostanziale coincidenza tra scuola (sapere + didattica) e stampa. Tutto ciò naturalmente non impedisce che il processo di digitalizzazione della scuola, anche del suo funzionamento culturale ed educativo, possa progredire. Purché ciò avvenga con gradualità e senza mettere in discussione l’assetto identitario della scuola stessa. Purché, insomma, permanga la sua identità di istituzione plasmata in base al paradigma vigente nel periodo storico in cui l’infrastruttura della stampa non aveva concorrenti. Purché, insomma, il digitale sia piegato e uniformato alle logiche e ai repertori di oggetti che sono propri della stampa.
Ma, così procedendo passo dopo passo, passettino dopo passettino, dei media digitali ci si abitua a vedere solo la componente materiale, il loro fungere da banale tecnologia strumentale. Ciò che in un simile approccio viene drammaticamente a mancare è la capacità di cogliere e far cogliere la parte di realtà che non corrisponde alla forma mentale, sociale e culturale della stampa e che la rete porta alla luce ma non produce, in quanto preesiste ad essa.
La crisi dei fondamenti delle scienze e lo sviluppo di linguaggi artistici eversivi rispetto a quelli consueti dentro l’età classica della modernità sono fenomeni che si collocano tra fine Ottocento e primi decenni del Novecento e che sono arrivati a diventare sensibilità collettiva e modelli di cultura sociale tramite la mediazione garantita dalle tecnologie dell’audiovisione. Questa è la parte di realtà che i media digitali rispecchiano ma che l’istituzione chiusa della scuola non vuole vedere (o non può?). Ma non c’è solo questo. C’è pure la zona di realtà che, lungo tutto il Novecento, ha dato corpo, in alcuni spazi di formazione non scolastica, in determinate aree aziendali, in talune organizzazioni di cultura, a modalità educative e didattiche centrate sulla valorizzazione delle differenze individuali, sulle dinamiche di gruppo, sulla condivisione delle esperienze di apprendimento, sull’intreccio fra esperienza di tipo informale ed esperienza di tipo formale, sull’operatività e l’intreccio fra i codici: insomma su tutti i temi e gli orientamenti che hanno giustificato e legittimato in tempi diversi e su latitudini diverse l’impegno a definire e praticare quella propensione all’attivismo che ora, a posteriori, appare come il principale filone unitario della pedagogia del Novecento. E che, aggiungo, un fiducioso e sapiente governo scolastico dei media di rete permetterebbe di accogliere intelligentemente all’interno degli spazi istituzionali della formazione..
Il non voler vedere, dal versante della scuola e dei suoi attori, queste che sono ormai realtà acquisite dal mondo e che hanno perso, anche grazie ai media dell’audiovisione, buona parte del carattere esplosivo mantenuto fino a pochi decenni fa, ma non la parte che, se accettata, metterebbe in forte discussione l’identità culturale e didattica della scuola ereditata dalla tradizione e tuttora in piedi, rischia di condannare l’istituzione ad una sempre più rapida perdita di valore. Paradossalmente rischiamo di individuare nella scuola stessa, restia a mettersi in gioco e ad accettare la sfida di cui digitale e rete si fanno tramite, il più efficace motore del processo, da tempo in atto, di descolarizzazione della società.