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“Non sono mai andato a scuola. Storia di un’infanzia felice” di André Stern

Recensione. “Non sono mai andato a scuola. Storia di un’infanzia felice” di André Stern

a cura di Paola Benadusi Marzocca (esperta di editoria per bambini e ragazzi)

Andare a scuola è indispensabile? La scuola della vita può equivalere ad una formale educazione scolastica? In linea di massima la scuola è un’istituzione fondamentale, e non solo per imparare a leggere, scrivere, contare. Ma ci sono anche gli autodidatti che marinano la scuola la mattina e passano il pomeriggio e le serate in biblioteca, oppure a casa dove genitori geniali, assolutamente fuori del comune, addestrano il loro bambino, insegnandogli tutto ciò che si può sapere attraverso il gioco e il disegno per diventare un genio come loro. E’ questo il caso di André Stern che racconta la storia della sua infanzia in una sorta di brillante quanto originale autobiografia, pubblicata da Nutrimenti con il titolo NON SONO MAI ANDATO A SCUOLA-STORIA DI UN’INFANZIA FELICE (Trad. Marina Karam, pp.190, €15,00) .

La scuola sicuramente tende ad omologare, anche l’attuale scuola pubblica italiana: poter usufruire di una testimonianza così ricca e originale come quella di André Stern, figlio del grande pedagogo e ricercatore Arno Stern, è una vera fortuna. Non a caso ha ottenuto uno straordinario successo di pubblico e critica in Francia e in Germania, perché pagina dopo pagina fa entrare senza enfasi, con un linguaggio vivo e diretto, nel percorso quotidiano scandendo le varie tappe della crescita dell’autore, in particolare l’infanzia e il periodo giovanile.

Anzitutto, Il padre Arno Stern discendeva da una famiglia di industriali tedeschi, che dopo l’insediamento di Hitler nel 1933, decise nel giro di una giornata di lasciare tutto per trasferirsi in Francia. Da lì di fronte all’avanzata delle truppe naziste nel 1940, la famiglia si trasferì di nuovo dopo varie peripezie in Svizzera. Quindi finita la guerra, tornarono tutti in Francia e sarà qui che il giovane Arno iniziò la sua attività di insegnante in un orfanotrofio della “banlieue” parigina. In realtà gli venne affidata la missione, assolutamente nuova per lui, di occuparsi di bambini rimasti orfani in seguito alla deportazione. Non era un insegnante, non conosceva nessun mestiere; aveva pochissimi mezzi a disposizione per intrattenere i bambini. Allora propose loro con improbabili strumenti il disegno e fu un successo.

Dopo la chiusura dell’orfanotrofio aprì un atelier a Parigi. Nel quartiere di Saint-Germaine-des-Prés la sua Académie du Jeudi raggiunse in breve tempo una notorietà mondiale.

Dal secondo matrimonio con l’algerina Michèle Arella , i cui genitori erano stati tra i primissimi coloni nati nell’Africa del Nord, nacque André. Questi sono i prodromi.

L’autore racconta che fin da piccolo, stanco delle continue domande che la gente gli faceva nel vederlo “in libertà” nelle ore in cui tutti i bambini avrebbero dovuto essere a scuola, aveva organizzato una volta per tutte una risposta standard:

“Buongiorno, mi chiamo André, sono un bambino, non mangio caramelle e non vado a scuola!”.

Precisa con chiarezza André nel suo libro che con questa sua testimonianza non vuole dimostrare niente se non offrire “l’opportunità di verificare in concreto se davvero sciagure di ogni genere si abbattano su chi non va a scuola e se, a dar retta alle previsioni, costui diventi un selvaggio analfabeta, indolente, asociale e isolato.”

Ebbene nel suo caso è avvenuto tutto l’inverso, anche se egli varie volte nel racconto delle sue giornate e della sua vita, sottolinea che ciò che ha vissuto può essere applicato soltanto a lui; che il suo modo eclettico e geniale di apprendere più discipline in maniera eccellente ,”non si può generalizzare né formalizzare “.

Ed allora quale è la soluzione? Semplicemente non esiste: scrive André che la sua è soprattutto la difesa della causa “di una moltitudine di storie individuali”. Con il pretesto dell’uguaglianza, la scuola tradizionale conduce sovente ad una “omologazione passiva”. Ognuno in realtà è diverso da un altro e le sue capacità minori o maggiori possono rivelarsi prima o dopo, a seconda del suo sviluppo e della sua intelligenza. La cosa fondamentale è “motivare il bambino”, e per questo basterebbe lasciarlo giocare quanto lui vuole.

Ci impegniamo a stimolare il suo interesse per le materie da lui trascurate, scrive, quando basterebbe lasciarlo dedicarsi a quelle che gli interessano. E, alla fine, è per “il suo bene” che facciamo appello al peggiore dei ricatti e dei patteggiamenti possibili, a quel principio secondo il quale si addestrano gli animali: punizione per un brutto voto, ricompensa per uno bello.”

Che dire? I bambini devono andare a scuola, perché la maggior parte resterebbe altrimenti analfabeta, considerando l’attuale situazione già in Italia allarmante e in ritardo per molti aspetti rispetto ad altri Paesi. Tuttavia sarebbe auspicabile cercare nei limiti del possibile di trovare un equilibrio più giusto e gratificante fra permissivismo e severità con lo scopo di potenziare il bambino nell’assoluto rispetto delle leggi naturali del suo sviluppo fisico e psicologico.

Ma chi si credono di essere questi adulti solo perché sono alti il doppio dei bambini, ma spesso hanno metà del loro cervello, per decidere su tutto della loro vita?

Scuola democratica
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