Back

Quale insegnante occorre per i giovani di oggi?

Quale insegnante occorre per i giovani di oggi?

di Giunio Luzzatto e  Alessandro Cavalli

(Giunio Luzzatto è esperto di organizzazione didattica dei sistemi universitari; Alessandro Cavalli è Presidente del Centro Studi e Ricerche sui Sistemi di Istruzione Superiore dell’Università di Pavia e del Comitato Scientifico dell’Istituto IARD)

In risposta all’articolo Discutiamo lo sviluppo della Buona Scuola

Prima di affrontare il tema che intendiamo discutere, quello cioè delle competenze che occorrono all’insegnante nella scuola di oggi (premessa per poter individuare le modalità necessarie per la sua formazione), ci sembrano opportune due osservazioni di metodo.

Anzitutto, all’azione governativa per la “Buona Scuola” va riconosciuto un pregio: ha introdotto per la prima volta nel sistema legislativo italiano una raffinata procedura matematica, nota nell’Analisi infinitesimale come “Metodo delle approssimazioni successive”. Abbiamo infatti, nell’ordine: -mesi fa, un generico documento di indirizzo; -l’attuale Disegno di legge; -infine (quando?) i provvedimenti veri, che saranno i Decreti legislativi di attuazione della maxi-delega che esso prevede. I matematici, peraltro, sanno bene che per applicare correttamente il metodo occorre poter rispondere affermativamente alla domanda-clou: le approssimazioni, alla fine, “convergeranno” a un risultato? Nel nostro caso, la risposta al momento manca. Vi è stato comunque un danno immediato, connesso al fatto che le scelte che nella legge toccano direttamente le persone (assunzione dei precari) costituiscono inevitabilmente l’aspetto di maggior evidenza mediatica: le oscillazioni al proposito, con formulazioni iniziali atte a creare in numerosi gruppi confuse speranze poi deluse da docce fredde hanno già concentrato l’attenzione (e le polemiche) su questo solo tema.

L’altro aspetto di metodo non è invece una novità, bensì -purtroppo- un vizio che si ripete. Il testo richiama continuamente il tema dell’autonomia scolastica, ma a proposito di essa (e delle conseguenti responsabilità nella gestione) afferma che quanto qui previsto viene disposto “nelle more della revisione del quadro normativo di attuazione della legge 59/1997”: dopo diciotto anni siamo ad una legge provvisoria in attesa di altre leggi …

Veniamo ora al merito, e specificamente alla questione degli insegnanti. Questa non può essere affrontata limitandosi, come avviene nel Disegno di legge, al solo tema della loro “formazione” (sia iniziale, sia in servizio o permanente): infatti, per un qualunque professionista la corretta definizione delle caratteristiche necessarie alla sua formazione deriva da una precisa individuazione del suo profilo professionale.

Nel discuterne, non si può non partire dall’esame dei gravi problemi che la scuola italiana presenta nei confronti internazionali: – a) una quota abnorme di abbandoni a partire dal primo ciclo della scuola secondaria; – b) performance mediocre in termini di apprendimenti (di competenze linguistiche, matematiche e scientifiche) e, soprattutto: – c) forte polarizzazione tra coloro (pochi) che si collocano nella fascia più alta e coloro (i più) che si collocano nella fascia più bassa degli apprendimenti. In altre parole, forte dispersione intorno alla media. Poiché non possiamo ritenere che i giovani italiani siano “meno capaci” dei loro coetanei, le loro prestazioni insoddisfacenti non possono riflettere se non una scuola incapace di fornire, per una quota consistente di bambini/adolescenti/giovani, adeguate motivazioni all’apprendimento, di stimolarne la curiosità. Questo, a nostro avviso, dipende tra l’altro proprio dall’insufficiente formazione professionale socio-psicologica e pedagogica del corpo insegnante. Rafforzare questa componente della formazione professionale degli insegnanti è necessario per non perpetuare una carenza che nella scuola italiana è pesantemente presente da quando questa ha assunto dimensioni di massa. Del resto le indagini condotte sugli insegnanti in servizio mostrano inequivocabilmente come essi siano ben consapevoli di queste carenze formative, alle quali attribuiscono almeno in parte le difficoltà e le frustrazioni che incontrano quotidianamente nella loro attività. Non vi è una quota di studenti inadatti alla scuola, ma è la scuola ad essere inadatta per una quota di studenti.

L’insegnante non deve essere perciò un mero esperto in una disciplina, con il compito di “trasmettere” le relative conoscenze: è un educatore, che forma i suoi allievi (come cittadini “colti”) attraverso i contributi che la disciplina stessa fornisce a tale formazione. Questo è sempre stato vero (anche se non tutti i docenti hanno sempre considerato in questi termini la propria funzione); oggi è ancora più essenziale, poiché per acquisire nozioni il giovane dispone di diffusi strumenti tecnologici, sicché la funzione del docente consiste soprattutto -per ciò che concerne le conoscenze disciplinari- nel renderlo capace di valutarne criticamente l’apporto e i limiti, mentre si espande la responsabilità educativa “trasversale”. La cronaca ci presenta ogni giorno casi di situazioni scolastiche socialmente difficili (la diffusione del bullismo è solo un esempio), che inevitabilmente chiamano in causa (oltre che, ovviamente, le famiglie) il ruolo degli insegnanti; bisogna chiedersi, perciò, se quelli in servizio siano attrezzati per poterle affrontare, e predisporsi ad attrezzare quelli futuri.

Nel momento nel quale insistiamo sull’indispensabilità di competenze “trasversali” per gli insegnanti di tutte le discipline vogliamo chiarire sùbito che tali competenze devono aggiungersi alle competenze relative alla “materia” e alla didattica specifica della materia stessa, non sostituirle: il docente deve certo essere un esperto disciplinare, pur non dovendo essere solo tale esperto!

Se quello sopra indicato, pur molto sinteticamente, è il profilo del professionista cui pensiamo, c’è da domandarsi se quanto viene proposto per la sua formazione appare adeguato. Al riguardo, il Disegno di legge dispone una delega, sicché al momento si conoscono solo i “principi e criteri direttivi” che il previsto Decreto attuativo dovrà rispettare. Sono i seguenti:

1) riordino complessivo del sistema per il conseguimento dell’abilitazione all’insegnamento nell’ambito dei corsi di laurea magistrale mediante l’inclusione del percorso abilitativo all’interno di quello universitario e conseguente superamento dell’attuale percorso di tirocinio formativo attivo;

2) definizione dei nuovi percorsi di formazione iniziale che comprendano gli ambiti sia delle materie caratterizzanti sia di quelle relative alla didattica disciplinare;

3) previsione all’interno del percorso di laurea abilitante di un periodo di tirocinio professionale.

Queste indicazioni sono state contestate in un documento (diffuso anche da ROARS, http://www.roars.it/online/documento-sulla-formazione-degli-insegnanti/) elaborato da un gruppo di Associazioni scientifiche dell’area letteraria e filosofica. Tali Associazioni si oppongono in toto all’istituzione di Lauree Magistrali finalizzate all’insegnamento e abilitanti a esso, con due tipi di argomentazioni: -a) la formazione ad aspetti generali della professione “ridurrebbe drasticamente lo spazio destinato allo studio delle discipline”; -b) si determinerebbero una “perdita di interesse da parte degli studenti” per le altre Lauree Magistrali, e perciò “conseguenze evidenti sulla consistenza e sulla sopravvivenza della specializzazione in area umanistica, con effetti a lungo termine preoccupanti per la nostra cultura”.

Dissentiamo radicalmente da questa posizione. Sul punto b) non vale la pena di discutere, se non per osservare che è sconcertante come questi studiosi ritengano che i loro Corsi di Laurea Magistrale possono sopravvivere solo se agli studenti non vengono offerte alternative; entriamo invece nel merito del punto a). Si tratta di esaminare il peso che nel curricolo formativo devono avere da un lato “lo studio delle discipline”, dall’altro la didattica delle discipline stesse e l’intera formazione alla professione: secondo il progetto governativo le discipline sarebbero di gran lunga prevalenti, poiché una parte dei 120 Crediti (CFU) della Laurea Magistrale sarebbe destinata a un ulteriore studio disciplinare, aggiuntivo rispetto ai 180 CFU della precedente Laurea di 1° livello, ma a parere di queste Associazioni ciò non basta perché un’altra parte dei 120 CFU riguarderebbe tutto il resto.

In realtà, se ci confrontiamo con i migliori esempi di formazione degli insegnanti presenti in Europa vediamo che gli elementi professionalizzanti dovrebbero avere un peso almeno uguale rispetto a quelli contenutistici; un altro confronto possibile è quello con la formazione del medico, per la quale nessuno si sognerebbe di affermare che solo un quarto, o meno ancora, debba riguardare le materie cliniche, a contatto col malato, e tutto il resto la biologia generale o la biochimica …

Per ciò che ci concerne, sulla base di quanto detto pocanzi dobbiamo esprimere obiezioni ben diverse a ciò che il Disegno di legge propone circa la formazione. La proposta, pur prevedendo di inserire altri elementi (la didattica disciplinare e il tirocinio), rimane infatti interamente nella logica delle Lauree Magistrali disciplinari: tutte separate tra loro, e con la recente modifica dell’assetto universitario non incardinate neppure in una più ampia Facoltà, bensì in un singolo Dipartimento. Ora, tutti gli studi sull’istruzione evidenziano il ruolo fondamentale che svolge l’ambiente formativo nel quale la persona viene educata: se questo ambiente è monodisciplinare il futuro insegnante avrà un’ottica dello stesso tipo, e non considererà cruciale, per lo svolgimento del suo compito, il lavoro congiunto con i colleghi delle altre materie, che dovrebbe invece tradursi in una programmazione collegiale nel Consiglio di classe. Si rischia cioè di perpetuare l’atteggiamento individualistico che, soprattutto nella Scuola secondaria superiore, viene oggi ritenuto l’aspetto più criticabile nel comportamento di molti docenti.

A nostro parere, l’ambiente in cui formare i futuri insegnanti deve essere perciò trasversale, multidisciplinare, con una parte di attività comuni -che predispongano quindi al lavoro di équipe- e una parte differenziata, destinata alle didattiche delle diverse discipline. Tale ambiente, inoltre, deve coinvolgere il mondo scolastico: non si tratta solo di organizzare i tirocini, tenendo la “pratica” rigorosamente distinta dalla teoria fornita dagli insegnamenti accademici, ma di costruire una partnership che divenga unitariamente responsabile di un progetto formativo comune, che integri le diverse competenze.

Un’ultima considerazione riguarda la durata da prevedere per l’intero percorso. Come spesso accade in Italia, si rischia di passare da un estremo all’estremo opposto. Il percorso era giunto a 7 anni, indubbiamente eccessivi, quando -dopo l’introduzione della laurea a due livelli- si dispose che l’accesso alla SSIS biennale, allora presente, richiedesse la Laurea Magistrale. Attualmente esso è di 6 anni, Laurea Magistrale più Tirocinio Formativo Attivo (TFA) annuale. Volerlo concentrare in 5 apre un problema pressoché insolubile relativamente ai contenuti del percorso successivo alla prima Laurea: per dare uno spazio adeguato alle scienze e alle pratiche educative generali si rischia di dover cancellare tutto ciò che ha un riferimento specifico alla singola disciplina. Appare perciò consigliabile mantenere, dopo la Laurea, l’attuale triennio, da costruire però non cumulando una Laurea Magistrale e un TFA tra loro separati, bensì attraverso un percorso unitario caratterizzato, come sopra suggerito, da una forte integrazione tra teoria e pratica, tra Università e Scuola.

twitter-1435587

Scuola democratica
Scuola democratica