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Scuola buona, scuola imperfetta e scuola da migliorare

Scuola buona, scuola imperfetta e scuola da migliorare

di Paolo Sestito (Banca d’Italia ed ex commissario straordinario INVALSI)

contributo in risposta all’articolo “Per avere una buona scuola ci vuole una buona discussione”

Indipendentemente dal merito delle proposte contenute nel documento su “La buona scuola”, la sua uscita e la consultazione avviata dal Governo sono iniziative encomiabili. Questo perché si è così sottolineata la necessità di affrontare il tema del sistema scolastico nella sua globalità e dopo anni di micro-interventi, spesso originati da esigenze spicciole di natura finanziaria e non da valutazioni intrinseche di efficacia, si è sottolineata l’idea che una buona scuola è un investimento, da fare usando oculatamente le risorse, ma per l’appunto da affrontare. Anche positiva è la sollecitazione a un dibattito nella società complessiva e non limitato ai soliti “addetti ai lavori”, spesso su posizioni ormai cristallizzate e portatori di interessi corporativi.

Personalmente trovo anche condivisibile il fatto che nel documento ci si concentri sui temi del personale e della governance del sistema, demandando per molti aspetti all’iniziativa dal basso il concreto rinnovamento della didattica. Una buona scuola non può che marciare su dei buoni insegnanti e (ri)motivare chi nella scuola opera è oggi la sfida principale, mentre riaprire – sulla base di un progetto top down – la questione del riordino dei cicli scolastici o degli indirizzi disciplinari dei singoli percorsi scolastici sarebbe velleitario e controproducente. Per quel che può valere, questo è anche il punto di vista alla base del libro da me da poche settimane pubblicato per i tipi de il Mulino (“La scuola imperfetta”), in cui pure, peraltro, mi dichiaro un nostalgico del riordino dei cicli immaginato quasi vent’anni fa dall’allora Ministro Berlinguer1.

Senza pretesa di esaustività, è sugli aspetti che meno (mi) convincono che qui però mi soffermo.

La fine del precariato: ennesima sanatoria o transizione verso un nuovo sistema di reclutamento? – I docenti precari sono circa un sesto del totale dei docenti annualmente impiegati nel sistema. Essi vengono tratti dalle cd graduatorie ad esaurimento che, congelate da alcuni anni e senza ingressi delle nuove coorti di aspiranti, hanno da ultimo comunque garantito a più di due terzi degli iscritti di avere un incarico annuale. Il sistema è fonte di frustrazioni: ogni anno non si ha la certezza di lavorare e tanto meno si sa dove si potrà essere impiegati; l’agognata stabilizzazione ormai interviene ben oltre i 40 anni di età e dopo 10 anni e più di itinerante e non necessariamente continuativa esperienza pregressa. Superare tale sistema è doveroso eticamente (e giuridicamente, visti i pronunciamenti della Corte di giustizia europea) e può migliorare l’efficienza del sistema: lo status di precario e l’assenza di prospettive operative nella singola scuola sono un vulnus alla motivazione dei docenti e una causa di discontinuità nell’azione didattica, con effetti deleteri sugli apprendimenti degli studenti. Ma perché dimensionare l’aumento nelle posizioni di ruolo non ai fabbisogni effettivi ma al numero di “aventi diritto”, così impegnando risorse altrimenti utilizzabili per altri fini e riducendo i flussi di nuovi ingressi futuri2? Perché rinunciare ad effettuare qualsiasi selezione all’ingresso tra gli aspiranti alle nuove posizioni di ruolo (sia pur riservandole in toto o in parte agli attuali precari)? Perché, in altri termini, non usare l’occasione di un forte aumento del numero dei docenti di ruolo per mettere a punto un nuovo sistema di reclutamento, fortemente selettivo e che tenga anche conto della performance effettiva dei docenti, da mettere in prova per un periodo di tempo sufficientemente lungo (un vero e proprio meccanismo di tenure track), prima di una loro eventuale stabilizzazione? La prefigurazione, a regime, di un nuovo sistema concorsuale, non solo è prevista operare su flussi annui contenuti (per via dello sforzo, nell’immediato, di sistemare tutti gli iscritti alle graduatorie ad esaurimento) ma rischia di restare lontana dalla logica di “messa in prova” ora citata. Si parla, è vero, di prove concorsuali di tipo nuovo, che non si basino esclusivamente sulla verifica del possesso di un dato set di conoscenze teoriche e riservate comunque a soggetti in possesso di una formazione specialistica comprensiva di un vero e proprio tirocinio; avrei però qualche dubbio che tutto ciò possa bastare. Per inciso, è anche poco chiaro perché procedere con concorsi a cadenza triennale: per un paese che viene dalla prassi dei mega-concorsi a cadenza decennale, con idoneità più o meno generosamente attribuite e poi fatte valere nelle varie liste di “precari abilitati”, non vi è il forte rischio che queste ultime possano così risorgere?

Dall’anzianità al merito – Nel regime attuale, i docenti, una volta divenuti di ruolo, hanno diritto a una lenta progressione di carriera, basata esclusivamente su criteri di anzianità. Nel documento governativo si immagina una progressione di carriera potenzialmente più marcata, con valorizzazione del merito individuale – con un sistema di scatti non più universale – e degli incarichi di tipo trasversale. E’ sul come perseguire queste direttrici di marcia, in quanto tali condivisibili, che alcuni rilievi critici possono esser fatti. La progressione di carriera a cui si pensa non sembra granché distinguere tra carriera professionale (eccellenza nell’espletamento della propria attività didattica, funzione di mentoring nei confronti dei più giovani colleghi etc.) e carriera nell’esercizio di compiti organizzativi (di collaborazione con la dirigenza). I criteri immaginati per sancire gli scatti di merito, rischiano inoltre di essere troppo basati su attestati formali (in particolare per quanto riguarda gli attestati relativi alla cd formazione in servizio) più che sulla valutazione delle effettive performance nei diversi compiti svolti. La rigidità della regola che assegna a agni scuola un immutabile budget di avanzamenti, rischia inoltre di indurre meccanismi di competizione all’interno di quello che dovrebbe invece operare come un team coeso e rende irrilevante qualsiasi elemento valutativo esterno alla singola scuola. Tanto una scuola con risultati lusinghieri quanto una scuola con pessimi andamenti, dovranno “premiare” con uno scatto di carriera 2/3 dei propri docenti: l’idea, avanzata nel documento governativo, che così i migliori docenti andranno nelle scuole peggiori (attratti dalle migliori chance di essere i primi nella Gallia anziché i secondi a Roma), facendo così loro invertire la rotta, appare piuttosto risibile, anche perché le valutazioni in loco rischiano di essere dominate o da aspetti formali (gli attestati sul numero di corsi di formazione seguiti) o da decisioni idiosincratiche di quel dirigente scolastico che magari è la causa prima della deludente performance della scuola.

La valutazione delle scuole – La sensazione che si ha leggendo il documento governativo è che finalmente si parta nell’applicazione del Regolamento sul Sistema Nazionale di Valutazione (SNV) pubblicato in Gazzetta Ufficiale ormai più di 1 anno fa. Per chi, come il sottoscritto, da responsabile dell’Invalsi ha a suo tempo cercato di effettuare i primi passi a ciò necessari, non può che essere una buona notizia. Ho però l’impressione che le complessità della costruzione del SNV siano state un po’ sottovalutate. I modelli di autovalutazione sperimentalmente predisposti da Invalsi, all’interno del progetto Vales, possono, pur con qualche difficoltà organizzativa, essere proposti a tutte le scuole. Pensare, da un lato, che queste siano in grado di recepirli e, dall’altro, che non sia necessaria una riflessione e una revisione di quei modelli, mi pare però poco plausibile. Stimolare, o addirittura imporre, la pubblicazione di migliaia di rapporti di autovalutazione da parte delle scuole – cosa che sembrerebbe essere la priorità, quantomeno nell’immediato – rischia di essere inutile se non controproducente. Prioritario è piuttosto garantire la qualità (e quindi in primo luogo la comparabilità) delle informazioni in essi incluse, evitando una proliferazione di dati “in forma libera”, il che quindi richiede di rafforzare le capacità dei sistemi informativi centrali, del MIUR e dell’Invalsi. Sforzarsi, attraverso campagne formative e di sollecitazione alle diverse componenti del sistema (inclusi i genitori e in generale gli stakeholders esterni), per far si che quei rapporti siano frutto di un processo in cui ogni scuola rifletta genuinamente sulla propria situazione: tanto varrebbe, altrimenti, pubblicare quei dati a cura di un qualche ente centrale, garante della qualità delle informazioni, evitando esercizi puramente adempimentali alle scuole. Da privilegiare è anche la partenza, sia pure su piccoli numeri, di quelle valutazioni esterne di tipo ispettivo essenziali a bilanciare il rischio di autoreferenzialità di tutti gli esercizi di autovalutazione. Soprattutto, servirebbe chiarire le implicazioni di valutazione (e autovalutazione) della singola scuola: definendo come si possano usare gli elementi tratti dalla valutazione di scuola per poter intervenire sui singoli dirigenti – eventualmente anche rimuovendoli o premiandoli – e come sostenere, con risorse vere, i processi di miglioramento delle scuole. Ferma restando la sollecitazione a tutte le scuole a far partire genuini processi di autovalutazione, forse la vera priorità è nell’intervenire – in termini di valutazione esterna e successivi piani di miglioramento – in quelle che sembrano andare particolarmente male.

Chi pensa alle scuole in condizioni critiche? – Un cardine del regolamento SNV era in effetti la previsione secondo cui la valutazione delle scuole serve a migliorarle e che prioritario è in tal senso l’intervento sulle scuole in condizioni critiche (quelle che, con gergo forse un po’ aziendalistico, venivano ritenute dover essere oggetto di ristrutturazione nelle raccomandazioni europee all’Italia). Il tema sembra però assente nel dibattito attuale (da cui il rischio di vacuità della spinta per una rapida partenza del SNV di cui prima si diceva). Dove è la carota delle risorse a sostegno delle scuole in condizioni di contesto più difficili e dove il bastone dell’intervento sanzionatorio nei confronti del responsabile di una performance poco soddisfacente (poco soddisfacente tenendo conto delle condizioni di contesto ambientale)? In effetti, non è ancora neppure chiaro se l’Invalsi, a cui la identificazione delle scuole in condizioni critiche spetterebbe, abbia o meno un’idea sul come procedere.

Autonomia scolastica, responsabilità dei dirigenti e risorse: quale modello? – Il tema ora discusso ha implicazioni di natura più generale, perché nel documento si immagina – condivisibilmente, come già detto – che le scuole, singolarmente o in rete, siano parte attive di una sorta di modernizzazione nei contenuti e nelle prassi della didattica. L’enfasi sull’uso del computer, sullo sport, sulla musica, sull’inglese, sull’accumulo (nei percorsi secondari superiori) di esperienze lavorative che consentano ai giovani di conoscere il futuro mondo del lavoro ed alla scuola di non essere percepita come istituzione “altra” dalla società, non vengono infatti trattate in un’ottica di tipo disciplinaristico. Al di là dei dettagli, ovviamente da discutere3, tutto ciò ha però implicazioni importanti sui modelli organizzativi. La scuola è chiamata a operare maggiormente in team, rompendo un po’ le paratie disciplinaristiche in cui ogni singolo docente si preoccupa solo del suo “programma”. Molte delle innovazioni in questione richiedono del resto voglia e capacità di organizzare attività addizionali e/o di recupero per i propri alunni, più che una riformulazione centralistica degli orari delle lezioni. Ciò che è poco considerato è come tutto ciò possa avvenire in assenza di un nuovo modello di governance all’interno della singola scuola e di regole di allocazione alla stessa delle risorse, umane e finanziarie, che responsabilizzino (i dirigenti de) le singole scuole e che tengano conto delle oggettive diverse difficoltà del contesto che ciascuna di esse incontra. Si vuole o no tenere conto del fatto che è nelle scuole con tanti figli di immigrati che si deve poter organizzare, in orario pomeridiano, qualche lezione supplementare di italiano? E si pensa al fatto che è in queste scuole che occorre fornire incentivi ai docenti migliori per prevenirne la tentazione alla fuga dai contesti più difficili?

E, per finire, una battuta sulle prove Invalsi – Da ex responsabile dell’Invalsi, considero una iattura l’eccesso di attenzione ad esse attribuite negli ultimi anni. La valutazione delle scuole deve partire da esse – come misura degli esiti formativi a cui la scuola deve mirare – ma non esaurirsi in esse, sia perché occorre tenere conto delle condizioni di partenza e di contesto (ragionare in quella che gergalmente viene definita logica del valore aggiunto, guardando non al livello ma all’evoluzione degli apprendimenti) e sia perché occorre, da un lato, arricchire il quadro degli esiti formativi ad altre dimensioni e, dall’altro, esaminare i processi che a quegli esiti hanno portato, sì da poter definire piani di miglioramento e non elargire soltanto pagelle4. Vi è però un aspetto legato alle prove Invalsi che non va trascurato: la loro funzione al fine di standardizzare la metrica dei giudizi riferiti a chi esca dalla scuola. Oggi, i risultati degli esami di Stato sono non comparabili, il che rischia di indebolire gli incentivi agli alunni e alle scuole a ben fare. Si può discutere se una prima valutazione in parte almeno standardizzata debba intervenire al termine del I ciclo o al termine dell’obbligo scolastico, quanto essa debba essere selettiva o servire solo a segnalare eventuali eccellenze e soprattutto sul come articolare i vari elementi delle prove (oggi l’esame di terza media soffre di varie illogicità, per le quali rimando al mio libro prima citato). Che però una valutazione almeno in parte standardizzata debba esservi, in specie al termine ultimo del percorso scolastico (la fine del II ciclo), a me pare incontrovertibile. Quando si parla di autonomia e accountability delle scuole come di elementi che solo se accoppiati hanno un impatto positivo sugli apprendimenti è alla articolazione flessibile delle attività didattiche e alla presenza di scrutini ed esami esterni standardizzati che si fa riferimento. L’assenza di quest’ultimo tema nel documento governativo – e il silenzio sui risultati delle sperimentazioni svolte dall’Invalsi su possibili prove standardizzate in V superiore – è perciò piuttosto preoccupante.

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Scuola democratica
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