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Per una nuova scuola dell’autonomia


C’è un equivoco che accompagna da trent’anni il progetto dell’autonomia scolastica. Presentata negli anni Novanta come la grande innovazione capace di modernizzare la scuola italiana, si è tradotta spesso in un dispositivo funzionale alle logiche del mercato: autonomia come competizione fra scuole, come managerialismo dei dirigenti, come libertà apparente di scelta delle famiglie. In nome dell’efficienza e della responsabilizzazione, abbiamo accettato che la scuola fosse sempre più misurata, valutata, classificata.

Oggi, dopo decenni di neoliberismo educativo, vediamo i limiti di questa impostazione. Le prove standardizzate hanno ridotto l’apprendimento a numeri comparabili, cancellando differenze culturali e territoriali. La retorica della scelta ha favorito processi di segregazione sociale, con scuole di serie A e scuole di serie B. L’autonomia non è nemmeno servita a risolvere la presunta crisi della scuola e della professione insegnante. Se si segue il dibattito pubblico e una parte della sociologia dell’istruzione, anzi, tale crisi appare oggi ancora più profonda.
Al contrario, un risultato evidente è l’allargarsi delle disuguaglianze e la progressiva perdita, da parte dell’utenza, dell’idea della scuola come istituzione con una funzione sociale istitutiva, legata alla trasmissione del sapere e alla costruzione di un ordine sociale fondato sull’eccellenza scolastica. Prevale invece una funzione strumentale, piegata sul linguaggio della performance e dell’employability. Da un punto di vista generale, si chiede alla scuola di rinunciare alla sua missione critica e democratica; da un punto di vista individuale, essa diventa un distributore di “credenziali” e un “certificatore” di competenze.
Se guardiamo dal Sud – e dal Mediterraneo – tutto questo appare con chiarezza ancora maggiore. Qui dispersione, povertà educativa e divari digitali mostrano che la promessa della scuola neoliberale si è realizzata come distopia, aumentando e non diminuendo il divario simbolico e materiale tra le scuole e università del Sud e quelle del Nord. Questi divari hanno finito per alimentare lo storico flusso di studenti dal Sud verso il Nord, aggravando la crisi demografica e sociale nelle regioni meridionali.

Le politiche calate dall’alto e i programmi europei hanno avuto effetti limitati. Si tratta infatti di interventi frammentati, incapaci di incidere sulle radici sociali delle disuguaglianze.
Eppure, proprio da questa crisi possiamo ripartire per pensare a una nuova idea di autonomia. Non più autonomia-mercato, ma autonomia-comunità. Occorre superare l’idea dell’istituto scolastico come “brand” o come “corporate” che compete per attrarre studenti, per riconoscerlo invece come nodo di una rete territoriale che produce legami, cultura e possibilità.
Quattro sono i pilastri di questo progetto:
Primo: riconoscere le differenze. La scuola non può essere ridotta a una griglia standardizzata. Deve invece valorizzare le diversità linguistiche, culturali e territoriali. In Sardegna, ad esempio, il bilinguismo non è un ostacolo ma una risorsa, così come lo è il radicamento locale di tante comunità. Autonomia significa poter adattare curricoli, metodologie e strumenti al contesto reale.
Secondo: restituire la dimensione di bene comune. La scuola non è un servizio da comprare sul mercato. È un diritto universale e uno spazio pubblico, dove si costruiscono cittadinanza e convivenza. Autonomia deve significare capacità di autodeterminazione delle comunità educative, non subordinazione a indicatori di produttività.
Terzo: liberare l’orientamento. Troppo spesso l’orientamento è usato come triage, per selezionare e incanalare i ragazzi secondo criteri di efficienza. Ma un’autonomia autentica dovrebbe aprire possibilità, accompagnare desideri e talenti, sostenere percorsi di emancipazione. Non classificare gli studenti ma costruire percorsi autenticamente personalizzati ed emancipatori.
Quarto: rivoluzionare la valutazione. Oggi la valutazione non tiene in alcun conto le differenze strutturali della scuola. Opera come se i percorsi scolastici secondari fossero identici. In questo modo si occulta il fatto che le differenze di competenze sono spiegabili in larga parte dal percorso scolastico (si pensi che la differenza negli “score di numeracy” è mediamente di 30 punti tra studenti del liceo scientifico e quelli delle altre scuole). La valutazione viene usata non tanto per mettere in questione la struttura del sistema, ma per mettere sotto processo insegnanti e singole scuole. Occorre invece una valutazione delle competenze degli studenti che sia coerente con gli obiettivi formativi delle scuole e che consenta di disporre di uno standard unitario di riferimento, valido sia per gli studenti sia per i docenti, per ogni tipo di scuola.

Questa prospettiva implica un cambio di paradigma: non più la scuola funzionale al capitalismo cognitivo e al suo bisogno di forza lavoro adattabile, ma la scuola come luogo di produzione culturale, di costruzione di una cultura civica partecipata, di immaginazione di un futuro condiviso.
Oggi, in un Mediterraneo attraversato da guerre, migrazioni e disuguaglianze, la scuola deve proporsi come laboratorio della convivenza. Un’autonomia della comunità deve dare voce a studenti, docenti e territori, con l’obiettivo di formare coscienze critiche e, soprattutto, non deve ridurre il sapere a “capitale umano”, ma restituirlo come bene comune.
La vera sfida è quella di reinventare l’autonomia, strappandola al linguaggio neo-manageriale del progetto neoliberale e restituendola al progetto democratico. Solo così la scuola potrà essere uno spazio di libertà e di possibilità. Un’autonomia matura e radicale, infine, che non ha bisogno di un ministero e della sua struttura gerarchica come fabbrica di circolari, ma di comunità capaci di autodeterminarsi e di assumersi responsabilità condivise.

In questa prospettiva, il dirigente dovrebbe mutare pelle. Oggi è l’ultimo ganglio di una rete amministrativa che dipende fortemente dal Ministero. Domani, in un’autonomia rifondata, potrebbe essere il leader di una comunità capace di costruire un progetto educativo partecipato. Non lo pseudo-manager di una pseudo-impresa, ma un animatore di micro-politiche educative e un intellettuale.

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