Bullismo, due facce, stessa medaglia
di Rosaria Cataletto (Psicologa, psicoterapeuta, esperta in criminologia e consulente presso il ministero di giustizia)
Il bullismo, non è un fenomeno nuovo, come spesso si crede, sono solo cambiate le modalità, attraverso cui questo viene percepito dalla società.
Gli episodi degli ultimi anni, riportati all’opinione pubblica, ne hanno cambiato il suo significato. Nel passato per “bullo”, si intendeva il ragazzotto di strada, spesso raffigurato con tratti che denotavano stati di povertà e lotta alla sopravvivenza, suscitando anche simpatia e comprensione, per il suo stato.
Oggi, invece non è cosi.
Non sempre a questo è associato lo stato di bisogno economico, bensì sono altri gli stati di bisogno, di cui necessita, e che trovano completamento, nel suo alter ego, la vittima.
Questo può essere diretto e indiretto.
La modalità diretta è quasi sempre tipica del maschio, mentre quella indiretta, è la tipica espressione del bullismo al femminile, teso soprattutto alla calunnia e all’isolamento, escludendo quasi sempre violenza diretta.
Si parla di bullismo, quando vi sono almeno quattro fattori concomitanti, e quando gli episodi prevaricanti, si manifestano per lungo periodo.
Abbiamo in ordine:
il bullo
la vittima
gli aggregati
gli spettatori passivi.
Si è parlato di bullo e vittima come le facce della stessa medaglia, in effetti, i due partono da uno stato di disagio comune, entrambi non riconoscono le emozioni.
Il bullo, è poco empatico, freddo, calcolatore, si serve della menzogna, della calunnia, delle minacce, fino in casi estremi ad arrivare a forme di violenza fisica, per raggiungere il suo obiettivo, teso al disfacimento psicologico dell’altro, e all’isolamento relazionale.
Si compiace della sofferenza che riesce a creare, intorno alla vittima da lui designata, e non esclude la violenza, vedendo in questa un valido strumento di coercizione.
Perfettamente consapevole delle sue azioni, riesce a trovare attraverso la menzogna, forme di giustificazioni al suo comportamento, per cui nessun senso di colpa pervade la sua coscienza.
Poco rispettoso delle regole, e dei sentimenti altrui, non riconosce le emozioni positive, come la gioia , la felicità, l’affettività in genere. Stato emotivo che spesso è indice di una educazione poco affettiva, non di rado, esposta all’immagine di situazioni altamente conflittuali o violente.
La vittima, invece, si presenta come educato, sensibile, di struttura fragile, con una autostima molto bassa, bisognoso dell’approvazione altrui.
Quando non trova ciò di cui abbisogna, si chiude ulteriormente nel suo mondo interiore, colpevolizzandosi dello stato di cose che vive. Di solito ha intorno un ambiente familiare poco gratificante e poco accorto alle sue esigenze, non di rado viene responsabilizzato per situazioni indipendenti dalla sua volontà, e da qui le sue insicurezze che tenderanno, nel corso degli anni, a strutturarsi sempre di più, fino a renderlo un adulto poco socievole, introverso, con bassa autostima e che teme fortissimamente le relazioni con gli altri.
Mentre il bullo, non riconosce le emozioni positive, la vittima non riconosce le emozioni negative, come ad esempio la rabbia.
Infatti, quando questa emerge, nei confronti del bullo, con il desiderio di porre fine a quelle vessazioni, viene sopraffatta dal suo senso di colpa, per cui si sente responsabile finanche delle reazioni violente che il bullo perpetua nei suoi confronti.
Chiaro è che ci si trova di fronte a due diverse patologie che hanno un denominatore comune, ma entrambe, hanno bisogno di un tempestivo supporto, contenimento e percorsi terapeutici, con il chiaro obiettivo di limitare i danni già avuti, ma soprattutto di provare a cambiare il modo di sentire le emozioni.
Gli aggregati, sono compagni del bullo, di solito poco noti, poco coraggiosi, poco inclini ad azioni efferate se non costretti dal leader del gruppo. Vivono di gloria riflessa del bullo.
Infine, abbiamo gli spettatori passivi, che sono quelli che sanno, ma che nulla fanno per interrompere un sistema perverso.
Il fenomeno è molto grave: infatti, di bullismo, in casi estremi si muore.
Le cronache degli ultimi anni, più volte hanno riportato episodi, risolti con suicidi di adolescenti, vittime di abusi psicologici e non, da parte di compagni, il cui obiettivo era il disfacimento totale dell’immagine della vittima designata e della frantumazione del Sè, di questi, al mondo intero.
A tutto questo ha contribuito anche la rete, che ha reso il fenomeno ancora più grave, fino ad identificarlo come cyber-bullismo.
Questa è la manifestazione più plateale, in quanto la ridondanza di false notizie, calunnie, diffamazioni, riesce in pochissimi istanti a convogliare l’interesse dei più e a produrre un flusso di parole e pensieri negativi, tutte dirette sul singolo soggetto.
Ogni like che arriva ad una calunnia, è un sasso lanciato contro, fino a produrre una vera lapidazione virtuale.
Come arrestare un fenomeno cosi grave?
Cosa possono fare le istituzioni per contenere gli effetti di tale fenomeno, che non di rado assumono i tratti di un dramma?
In maniera realistica si sa che il problema è cosi diffuso che difficilmente può avere soluzione definitiva, ma forme di prevenzione primaria, attuate in rete, possono senz’altro arginare gli effetti devastanti.
La prevenzione primaria, va fatta immediatamente all’insorgere del problema, meglio ancora se fatta prima come forma di educazione al rispetto, all’empatia, all’accettazione della diversità, all’integrazione.
Sarebbe di fondamentale importanza coinvolgere in questa, gli stessi genitori e professori, medici di base, nel riconoscimento di sintomi più o meno chiari che sia la vittima, che il bullo, immancabilmente presentano.
Negli ultimi giorni, il governo ha approvato una legge a tutela di vittime di episodi di cyberbullismo, inasprendo fortissamente sia le pene pecuniarie, fino a 180,000 euro di risarcimento, sia gli aspetti procedurali a livello penale, stabilendo un massimo di due anni di pena, per coloro, al di sopra dei 14 anni, che si rendono responsabili di atti di cyberbullismo.
La legge, non è ben chiara. Non sono ben definiti, quelli che sono i confini, tra libera espressione di una opinione e quello che è un atto di cyberbullismo. Tutto vine affidato all’interpretazione del garante della privacy, compito questo non semplice.
Ma indipendentemente da tutto, quello che rimane fondamentale, in questa forma di assurda violenza, è rompere il silenzio.
Il parlare, il comunicare ad un adulto di riferimento, lo stato di disagio che si vive è il primo passo per non essere vittima delle proprie paure.
Superare la vergogna di essere vittima, indicando l’abusante, è un atto di coraggio verso se stesso ma diventa soprattutto un atto di forza, nei confronti dello stesso abusante, bisognoso di contenimento, esattamente come l’abusato.