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Dirigenza e valutazione

Dirigenza e valutazione

di Renata Puleo (ex Direttrice Didattica, Dirigente Scolastica)

Nell’intervento pubblicato sul blog Learning4, G. Rembado (ANP-ESHA) sostiene che il testo La Buona Scuola si è indebolito, nell’impianto teorico e nelle proposte di intervento, attraverso i successivi passaggi in Parlamento (per vedere l’articolo di Rembado su learning4 clicca QUI) . F.Nuzzaci (ANP-ESHA) ritiene che non si sia realizzato alcun processo di “pleno iure” per la dirigenza scolastica malgrado esistano gli strumenti normativi nel testo della legge-Brunetta (n.15/09; Dlgs 150/09). L’anno che si apre vedrà dirigenti gravati da enormi responsabilità ma deboli nella possibilità di intervento. Se Nizzaci sottolinea la scarsa consistenza delle misure relative alla premialità e al merito, cuore stesso della legge-Brunetta, con il contraltare di provvedimenti sanzionatori, Rembado si dice convinto che proprio il nesso autonomia-dirigenza-merito sia uscito dal testo della legge n.107/15 depauperato di strumenti per la gestione del personale, derubricata a “valorizzazione”. Ostacolo alla primazia della figura dirigenziale anche il Comitato di Valutazione, rivisto nei compiti e nella composizione, e la mancata riforma degli OOCC. Il tutto, compresa la cancellazione del provvedimento compensativo del 5 ‰, frutto di un compromesso con la parte corporativa della scuola, senza che si sia conseguita la “pace sociale”.

1. L’autonomia e la dirigenza nate alla fine degli anni ’90 ( Dlgs 6/03/1998 n. 59; DPR 8/03/1999 n.275) hanno creato forti aspettative verso un processo che allora si chiamava innovazione, più pudicamente di rottamazione. I corsi di formazione per i neo-dirigenti, affidati alle Università e ai privati, imposero il modello della managerialità di importazione, basato sulla gestione delle “risorse umane”, sul nesso mercantile “domanda-offerta”. Nella mia esperienza ho visto aumentare dal 2000 le incombenze burocratiche, malgrado l’intento da cui erano partiti i provvedimenti in materia fosse la “semplificazione”. Gli istituti giganteschi per numero di studenti e per complessità di indirizzi, la pressione ad accettare gli incarichi di reggenza, la difficile gestione degli uffici con personale precario e privo di preparazione, la carenza di finanziamenti e l’invito a cercarsi fonti esterne per sostenere i progetti e l’ordinaria amministrazione, le responsabilità connesse con la messa in sicurezza di edifici malridotti, hanno distolto il dirigente dal lavoro più significativo: garantire un buona didattica, osservare e valutare i processi di insegnamento-apprendimento in forma cooperativa, insieme agli insegnanti (non con occhiuta vigilanza). Oggi, è difficile trovare dirigenti che possano o sappiamo seguire il lavoro dei docenti, orientare i gruppi di studio, dare valore agli “innovatori naturali” (espressione contenuta nel testo La Buona Scuola), nell’ottica della capillarizzazione dei saperi e del sostegno alle parti culturalmente e professionalmente più deboli. Dopo decenni di precariato e di assenza un piano di ampio respiro sulla formazione in accesso e in itinere, nella disomogeneità dei retroterra, cosa e come valuteranno i dirigenti? E chi valuterà loro? Troppo vago in tal senso il programma previsto nel SNV.

2. Qualsiasi operazione di valutazione nazionale dovrebbe distinguere i livelli: i) una perfettibile, attiva e aggiornata valutazione del lavoro-docente nei processi di insegnamento-apprendimento costituisce un supporto, uno stimolo per percorsi di formazione ricorrente, che non possono essere oggetto di valorizzazione economica (i bonus) ma di ricerca e di investimento culturale per tutti, dirigenti e diretti; ii) il sistema a livello macro prevede l’analisi accurata dei dati (dispositivi quantitativi e statistici) sui luoghi in cui si impartisce l’insegnamento, sulle risorse umane e economiche disponibili, sull’organizzazione dl lavoro (tempo-scuola/tempo di docenza, continuità didattica), un livello longitudinale che va dalla scuola dell’infanzia all’istruzione adulta, in una riconsiderazione complessiva dell’istruzione superiore e dell’università. Se è troppo per le condizioni storiche attuali, lo si rimandi, lo si riprogrammi, senza millantare operazioni parziali e contraddittorie come se fossero una risposta alla vastità dei problemi.

3. C’è una questione di fondo su cui si glissa troppo spesso: come si valuta un processo di apprendimento a partire dal comportamento-docente? M.Lichtner ed io, dopo lunghi anni passati a discutere e a lavorare sulla valutazione del lavoro docente e nei CTP (ora CPIA) sulle competenze adulte, siamo giunti alla conclusione che non si può valutare un comportamento umano quando è complesso. L’affermazione non porta con sé un retrocedere di fronte al compito ma un modo di affrontarlo senza scorciatoie. Qualsiasi azione di miglioramento di una prestazione complessa parte dall’attenta osservazione del suo svolgersi in un tempo significativo, guidati da un’ipotesi, soggetta a smentita dai dati osservati, riformulata. Si citano spesso le azioni di misurazione sul “valore aggiunto” adottate in altri paesi, si utilizzano a-criticamente i test creati a fine statistico, ma si ignorano le migliori esperienze di valutazione, sia di contesto, sia di processo (A. Brown, L. Shulman e altri). Esse prevedono denaro, ricerca a livello universitario, tempi distesi, adesione motivata dei soggetti delle diverse platee (insegnanti, studenti,famiglie, dirigenti).

4. Il RAV, ultimo parto del SNV non è un documento di supporto per le scuole ma un modello “fortemente guidato a livello centrale e strutturato sulla base di indicatori quantitativi”; “la complessa mole di dati comparativi predisposti” è autoreferenziale, induce chi compila a non deviare dal percorso teorico-pratico a cui tale mole si ispira. Il fatto che la rivista Scuola Democratica nel recente lancio “Valutazione e Miglioramento nei processi educativi” da cui traggo le citazioni virgolettate, consideri tutto ciò delle “criticità” dimostra che qualcosa nell’elaborazione del consenso non ha funzionato, che l’Accademia storce il naso di fronte all’impianto del RAV. Dalla data della sua diffusione nelle scuole è successo di tutto: delibere per bloccare la designazione dell’unità di autovalutazione, compilazione a cura di pochi addetti individuati dal dirigente, in alcuni casi redazione monocratica del solo dirigente con il supporto di qualche fedelissimo e dell’ufficio di segreteria. Chi ha creduto alla possibilità di una “riflessione effettivamente proficua”, è finito nelle maglie strette del documento anche compilando le parti aperte. Un clima di sospetto relativo ad un eventuale punteggio premiale (per l’istituto e per i docenti) ha aleggiato inquinando le relazioni, fondamentali in un ambiente educativo. Intanto sul Regolamento 80/13, su tutto il complesso del SNV, è pendente un ricorso al TAR per incostituzionalità presentato dalla FLC-CGIL, un’organizzazione sindacale che negli ultimi dieci anni non è certo stata ostile alle manovre dei governi. Anche in caso di rigetto, costituisce uno strappo per l’operazione-RAV.

La “pace sociale” invocata da Rembado è frutto dell’elaborazione del consenso. Quello di gramsciana memoria, non quello ostentato mediante il demagogico sondaggio sulla riforma. Molte risposte avanzavano critiche e un vasto movimento è nato contro l’approvazione della legge. Quale “rendicontazione sociale” è possibile senza ascolto del dissenso? La stasis è un dispositivo che non evoca la stabilità come vorrebbe la sua deriva etimologica, ma è conflitto all’interno stesso dell’esercizio della cittadinanza attiva, è la dis-cordia in seno alla città. Evocare il conflitto solo come forza negativa, impolitica, disordine che impone una verticalizzazione verso il capo, credo sia molto pericoloso.

Scuola democratica
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