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Il Sistema Universitario Italiano: rapporto col territorio, reclutamento, orientamento

Il Sistema Universitario Italiano: rapporto col territorio, reclutamento, orientamento

di Paolo Rossi (Università di Pisa e Consiglio Universitario Nazionale)

intervento presentato al convegno “Sistema universitario. È già ‘Buona università’?” svoltosi presso la Seconda Università di Napoli il giorno 11 dicembre 2015

La distribuzione territoriale delle università  –  Contrariamente a certa pubblicistica le università italiane non sono troppe ma troppo poche. L’Italia ne ha circa la metà dei Paesi sviluppati di dimensioni paragonabili (gli Stati Uniti poi hanno una popolazione cinque volte superiore ma un numero di università venti volte superiore a quello italiano). Una diversa e più densa articolazione territoriale del sistema universitario produrrebbe anche una maggior consapevolezza dell’importanza della formazione superiore per lo sviluppo economico sociale e culturale del Paese. Non tutti gli atenei possono raggiungeere gli stessi livelli di qualità, essendo inseriti in contesti molto differenziati. Ma se si penalizzano pesantemente le sedi con risultati meno brillanti si rischia di aggravare ulteriormente lo squilibrio territoriale. È significativo che la probabilità di avviarsi alla carriera universitaria sia tre volte maggiore della media per i nati in Comuni che sono sede di un Ateneo, fenomeno che si lega direttamente alla diversa sensibilità sociale sul ruolo degli intellettuali laddove essi sono (o non sono) fisicamente presenti. Si tratta di “fertilizzare” il territorio con la cultura per far crescere la pianta dell’innovazione e favorire lo sviluppo di nuove opportunità occupazionali per i laureati.

Politiche e vincoli al reclutamento –  L’adeguamento del sistema universitario italiano agli standard europei comporta anche un sostanziale accrescimento del corpo docente e del personale che porti al recupero dei valori ante crisi: dal 2008 al 2015 siamo passati da quasi 63 mila docenti a meno di 51 mila inclusi i ricercatori di tipologia b) (tenure track), il cui numero attuale (circa 500) è del tutto inadeguato al rinnovamento e al ringiovanimento della docenza. Il calo degli ordinari è ancor più netto: tra il 2006 e il 2015 si è passati da quasi 20 mila a meno di 13 mila. Il rapporto studenti/ordinari è stato una costante del sistema univeritario italiano fin dai primi anni Cinquanta, con valori compresi tra 90 e 110 studenti, ma di recente è salito rapidamente fino a quasi 150. Spesso gli Atenei sono semiparalizzati dai vincoli di spesa, resi ancor più stringenti dal “punto organico” (P.O). Si noti che il P.O. è letteralmente “illegale”, in quanto non è previsto da alcuna legge dello Stato. Non è accettabile una politica che in un’ottica strettamente economica comprime ai minimi termini il reclutamento e la progressione delle carriere. L’immissione nel sistema universitario di un numero molto maggiore di giovani ricercatori – dell’ordine di 9-10 mila in pochi anni – rappresenta un’esigenza concreta e irrinunciabile se non si vuole condannare il sistema stesso alla morte per inedia fisica e intellettuale. Questa strategia non può però prescindere da un nuovo e più moderno disegno dei percorsi di pre-ruolo e di reclutamento. Il C.U.N. propone che dopo un periodo post-dottorale caratterizzato da un contratto di lavoro a termine di durata limitata ma con adeguate garanzie normative e retributive si possa accedere a una posizione realmente tenure track di durata quinquennale (per la quale si è proposta le denominazione di “professore junior”) cui seguirebbe l’inquadramento in ruolo a tempo indeterminato, subordinato soltanto al conseguimento di un’abilitazione. Occorrerebbe però una seria programmazione quantitativa dei reclutamenti già a partire dalle posizioni postdottorali. La leva finanziaria è certamente uno strumento adeguato a governare questi processi anche senza per forza ricorrere a una centralizzazione delle decisioni. Il concreto processo del reclutamento risulterà necessariamente selettivo e ciò richiede un’adeguata e attendibile valutazione dei candidati. Riteniamo che i migliori giudici delle qualità di un giovane studioso siano gli studiosi esperti, che non possono essere rimpiazzati da criteri “oggettivi” legati più alla sociologia della ricerca che non alla sua qualità. Per contenere il rischio del “nepotismo accademico” occorrerebbe “valutare i valutatori° monitorando la produttività dei reclutati e penalizzando chi ha fatto scelte sbagliate. Tutto ciò comporta anche una visione della valutazione diversa da quella attuale: si dovrebbe puntare non tanto a esaltare ipotetiche “eccellenze” quanto a eliminare le “code” negative, senza colpire quella maggioranza di onesti “professionisti” della ricerca che costituiscono il vero humus culturale dell’università, senza il quale è difficile che possano germinare anche le idee più geniali e le soluzioni più innovative. L’esperienza dei Paesi più avanzati ci dimostra che occorrono molta ricerca e molta formazione per avere buona ricerca e buona formazione.

Relazione tra mancanza di orientamento e fenomeni di abbandono  – Per garantire funzionalità ed efficienza al sistema universitario occorre anche combattere la dispersione iniziale che giunge in talune aree disciplinari fino a un terzo degli immatricolati e che può essere ricondotta ad almeno due cause principali: da un lato l’assenza di una seria politica del diritto allo studio, che non è solo un problema di borse di studio, mense e alloggi ma è anche un problema di assistenza, di tutorato e di integrazione sociale, e dall’altro la quasi totale mancanza di orientamento che porta i neodiplomati a iscriversi a corsi di studi dei quali non sono in grado di valutare il reale significato e il tipo di impegno richiesto e per i quali spesso non hanno una reale vocazione ma soltanto una generica “attrazione”. Queste considerazioni ci portano a dire che una vera “buona università” non può prescindere da una vera “buona scuola” e soprattutto da un vero rapporto scuola-università che dovrebbe passare attraverso l’adozione di strumenti innovativi volti a favorire un orientamento di tipo realmente vocazionale. Gli “stage” nelle imprese possono essere utili a una minoranza di studenti, ma sarebbero ben più utili, per la maggioranza di diplomati, “stage” universitari ben organizzati che consentissero un’immersione totale nelle nuove problematiche e quindi la maturazione di scelte positive e negative fondate su una miglior percezione degli obiettivi e degli ostacoli. Esistono già esperienze pilota in questa direzione che andrebbero potenziate e rese sistematiche, se non addirittura obbligatorie.

Scuola democratica
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