La Buona Scuola è…..creare un sistema di responsabilità
di Ivana Summa (Esperta CIDI)
Contributo in risposta all’articolo “Per avere una buona scuola ci vuole una buona discussione”
Desidero fare una premessa al mio argomentare; premessa che è legittima in quanto sono passati quasi 15 anni dalla legge più rivoluzionaria che sia mai stata pensata per il sistema scolastico del nostro paese: l’autonomia scolastica. Per come era stata concepita sulla carta dalle norme, l’autonomia degli istituti scolastici avrebbe dovuto cambiare il modo di pensare alla scuola perchè avrebbe cambiato il modo stesso in cui la scuola si sarebbe pensata ed avrebbe agito.
In realtà – e questo è sotto gli occhi di tutti – è aumentato il centralismo burocratico e, contemporaneamente, l’agire anarchico delle singole scuole.
Così oggi siamo di fronte ad un panorama del tutto particolare, perchè è proliferato un sistema composto da tante unità scolastiche autarchiche, aureferenziali, autoconsistenti. E ciò riguarda anche le cosiddette “reti di scuole” che, senza risorse professionali dedicate (figure di sistema), sono diventate sovrastrutture effimere ed opportunistiche e, dunque, deboli in quanto costituite soltanto per acquisire una qualche risorsa finanziaria. Non c’è traccia di reti di scuole dedicate all’innovazione attraverso percorsi di ricerca, sperimentazione, sviluppo, così come ampiamente previsto dalle norme. In compenso, gli ex Provveditorati agli Studi, hanno cambiato nome ma restano con lo scopo di contenere l’anarchia piuttosto che attivare l’autonomia.
A questo punto è doveroso fare alcune considerazioni che partono dal presupposto che, con l’attribuzione dell’autonomia, le singole istituzioni scolastiche avrebbero dovuto essere riorganizzate in modo da creare un sistema di responsabilità in ordine ai risultati.
La prima considerazione è che le norme, che diventano riforme, non procurano di per sé i cambiamenti desiderati; appesantiscono il sistema aggiungendo il nuovo al vecchio e lo rendendono assurdo nel suo stesso impianto fondativo.La prova evidente è che le singole istituzioni scolastiche si sono trasformate in una sorta di sistema di irresponsabilità e il governo del sistema delle autonomie ha posta in essere un’incredibile governance burocratica.
La seconda considerazione vuole superare la mera constatazione della fenomenologia dell’attuale sistema delle autonomie scolastiche, per giungere al cuore del problema: senza un riassetto dei poteri e delle responsabilità all’interno delle singole scuole non può esserci una “buona scuola”. Si rende necessaria una contemporanea e coerente ridefinizione dei ruoli professionali e, in particolare, di quello del docente. Non c’è traccia di tutto ciò nel documento della “buona scuola”, se non un rafforzamento dei poteri del dirigente scolastico, così come ha messo in evidenza il contributo di Antonio Valentino. Al quale noi aggiungiamo che gli stessi poteri rischiano di diventare “armi improprie” se affidati ad una discrezionalità dirigenziale che ha come riferimento esclusivo una generica “libertà di insegnamento”.
Infine, è bene chiarire che cosa – a mio parere – debba intendersi per “buona scuola”. L’unica definizione esauriente è quella di “una scuola che funziona” non solo per chi ci lavora (diventerebbe davvero autoreferenziale!), ma innanzitutto per gli utenti (alunni, famiglie, stakeholders), e per le finalità che deve perseguire e per le quali lo Stato investe ingenti risorse che, storicamente, sono state sempre ritenute insufficienti. Questa difficile triangolazione va ricercata e non elusa.
A corollario di quanto fin qui premesso, voglio aggiungere che le scuole debbono essere messe in grado – avendo i poteri di autogoverno e le conseguenti leve gestionali – di attivare micropolitiche locali che sappiano coniugare le particolari esigenze del territorio con le istanze della politica nazionale. Le prime e la seconda, evidentemente, non possono soltanto riguardare il buon funzionamento della scuola in quanto tale, ma la sua strumentalità (nel senso alto di questo termine, che la faccia diventare soggetto attivo e non esecutore) in ordine allo sviluppo sociale, economico e democratico del nostro paese.
Ma ritorniamo alle singole scuole autonome, tenendo presente l’attuale sistema di governance interna composto da:
1. Un consiglio d’istituto che è (dovrebbe) essere un organo di indirizzo e controllo, e dunque dovrebbe individuare gli obiettivi strategici dell’istituto scolastico.
2. Il collegio dei docenti che elabora, sul piano tecnico, l’offerta formativa della scuola rimandando alla totale liberà dei singoli docenti la sua attuazione educativa e didattica.
3. Il dirigente scolastico, cui spetta la concretizzazione del POF sul piano della gestione sia delle risorse umane che di quelle strumentali e finanziarie.
Le relazioni tra questi tre attori organizzativi, nei fatti, sono poco chiare all’interno delle singole scuole soprattutto perchè non c’è stata né la riforma degli organi collegiali, né la definizione normativa del nuovo stato giuridico dei docenti.
Senza questi due pilastri, non è facile comprendere come si possa parlare di meritocrazia e quindi di valutazione dei docenti, della scuola e del dirigente, senza aver fissato il peso del potere attribuito ad ogni soggetto nella relazione con gli altri soggetti interni e la responsabilità “individuale” di ognuno, finora genericamente dribblata ricorrendo a costrutti sociologici molto suggestivi ma privi di qualsiasi fondamento scientifico: condivisione, corresponsabilità, comunità di pratiche, patti formativi e via di questo passo.
Per quanto riguarda i docenti, lo stato giuridico è non solo essenziale per rivalutare una professione lasciata alla libera interpretazione del ruolo, ma è determinante nella logica giuridico-amministrativa del Sistema Paese che oramai usa una sola parola come soluzione ai mali nazionali – valutazione e merito – senza però mettere a punto strumenti e modalità per praticarlo concretamente.
Bisogna dire basta ad ideologie, miti e tabù che garantiscono soltanto chi li predica.
I docenti sono professionisti se ci riferiamo al contenuto del loro lavoro, ma sono anche impiegati pubblici che devono avere a loro specifica garanzia uno stato giuridico che ne definisca diritti, anche di sviluppo professionale e di carriera, e doveri, essenziali perchè rivolti alla missione istituzionale della scuola. Diritti e doveri che devono essere declinati dal contratto in prestazioni puntuali e precise. Qualcuno obietterà che la qualità dell’insegnamento non dipende dalla semplice realizzazione degli adempimenti. Ne convengo, ma la qualità dell’insegnamento deve rispondere allo Stato e alla società del suo esercizio e il primo passaggio è l’adozione degli strumenti di trasparenza applicati a tale esercizio, cioè alla programmazione, gestione ed erogazione del servizio di istruzione, educazione e formazione.
Chi vigila sulla libertà di insegnamento – coniugata come discrezionalità professionale fondata sia sull’appartenenza ad una comunità professionale sia su un puntuale stato giuridico – se non il dirigente scolastico? E il dirigente scolastico può (potrebbe) farlo perchè è stato selezionato in seno alla comunità professionale dei docenti e non proviene, invece, dalla funzione amministrativa. A sua volta, dovrà (e potrà) rispondere a qualcuno che può (e deve) giudicare non soltanto la sua gestione amministrativa, bensì la sua capacità di gestione delle risorse umane che dipende certamente dagli “autonomi poteri” conferitigli dalle norme, ma soprattutto dalla sua capacità di leadership educativa, in grado di influenzare e motivare positivamente i comportamenti dei dipendenti, valorizzandoli, valutandoli, premiandoli e aiutandoli a migliorare la loro professionalità.
E’ chiaro, a questo punto, che bisogna ripensare alla selezione in entrata dei dirigenti scolastici e soprattutto alla loro formazione che deve essere focalizzata sulle competenze manageriali e di leadership che rendono possibile la gestione delle risorse umane sia considerate singolarmente che come gruppi di lavoro e team operativi. E’ a questo livello che deve avvenire la legittimazione del ruolo dirigenziale e non dalla legittimazione di tipo burocratico-formale, che si configura come preminente rendita di posizione.
Infatti, non esiste un manuale di regole giuridiche certe la cui applicazione consenta al dirigente di avere sicuro successo, ma certamente non è pensabile – come fa il DPR 80/2013 (Sistema Nazionale di Valutazione) – che il dirigente scolastico risponda dei risultati degli apprendimenti degli alunni della scuola (sic!) non avendo nessun reale potere di intervento sulla prestazione professionale dei docenti.
Infine, un’ipotetica riforma dovrebbe definire anche la relazione tra il dirigente e i due soggetti decisionali collegiali, provvedendo nel contempo, ad adeguare o a normare in modo speciale le loro funzioni rispetto alla disciplina regolativa dei poteri pubblici.
Quello a cui assistiamo oggi è l’assimilazione semplicistica della scuola a tutte le altre amministrazioni pubbliche, mutuando le regole che disciplinano l’uso dei poteri pubblici nell’ambito del d.lgs. n. 165/2001 e trasferendole automaticamente sui soggetti decisionali della scuola. E così ci troviamo di fronte a consigli di istituto che si rifanno agli organi di indirizzo politico amministrativo di cui all’art. 4, comma 1 del d.lgs. n. 165/2001 e deliberano – senza averne la competenza né le competenze – piani di prevenzione della corruzione e piani della trasparenza. Poco ci manca che emanino le direttive annuali sull’azione amministrativa e la gestione, da inviare al dirigente scolastico.
Che fare? Ri-costruire una forte coerenza relazionale dei diversi ruoli e funzioni, declinata in termini di responsabilità. Nell’attuale stato confusionale della scuola, l’introduzione di nuovi istituti – come la valutazione del merito e la stessa valutazione di sistema, il rafforzamento dei poteri del dirigente scolastico e l’istituzione di un nucleo interno di valutazione – potrebbe portare a situazioni imprevedibili e ingestibili.