La buona scuola è… una buona comunità di pratiche
di Caterina Manco (Dirigente Scolastico a Monterotondo – RM)
Contributo in risposta all’articolo “Per avere una buona scuola ci vuole una buona discussione”
Colgo lo spunto, per questo mio breve intervento, dalle riflessioni proposte dai colleghi Antonio Valentino (vedi articolo) e Ivana Summa (vedi articolo) che si soffermano sulla figura del Dirigente Scolastico come nodo centrale della governance, del tutto nuova, che potrebbe/dovrebbe uscire dal processo di riforma verso la “buona scuola” messo in atto dal Governo Renzi. Novità assoluta, del resto, se per la prima volta il Governo non mette l’accento sulla riforma degli ordinamenti, dati ormai per acquisiti in quanto ad architettura di sistema, ma sul modo in cui si possa tornare a parlare di una scuola buona, per chi la vive dall’interno (DS, docenti, personale ATA) ma soprattutto per chi la utilizza: gli studenti e le loro famiglie, che della scuola sono il cardine e, alla fine, l’unica vera ragione di esistere.
Mi soffermo, in particolare, sull’idea di “comunità professionale” o, come meglio ancora propone Valentino, sulla “rete di comunità di pratiche” in cui può/deve articolarsi un Collegio Docenti, “idea motrice in ogni processo di miglioramento – come è riconosciuto dalla ricerca internazionale più avanzata sulle strategie – che si avvalga del protagonismo dei docenti”. Perché mi piacerebbe parlare di come si costruisce – e si fa vivere – una comunità di pratiche e quale possa essere, al suo interno, il ruolo e la funzione di un Dirigente Scolastico che, d’altra parte, a ciò dovrebbe essere opportunamente formato. Esattamente come i docenti che dovrebbero cessare, una volta per tutte, di aggrapparsi alla “libertà di insegnamento” (garanzia iscritta nella Costituzione per salvaguardare anche nella scuola la fondamentale “libertà di pensiero” minacciata e compromessa in tempi per fortuna lontani) come unico fondamento di una vita professionale centrata su se stessi, spesso estranea a qualsiasi forma di condivisione e di collaborazione, come ancora oggi accade in molte situazioni, soprattutto negli Istituti Superiori.
Se, come credo siamo d’accordo nel ritenere, un processo di innovazione deve riguardare l’intero Istituto, e non solo le classi – o i docenti – che diano la loro disponibilità (ci troveremmo davanti, in questo caso, alle solite “punte di diamante” che non fanno avanzare di un passo l’intero sistema), sarà inevitabile una forte dose di direttività da parte del DS – garante della buona scuola verso gli alunni, prima ancora che verso lo Stato – per ottenere che l’innovazione venga realizzata da tutti; ma andrà contemperata da una serie di interventi “a tappeto” volti a creare la condivisione e, a partire dai pochi che sempre costituiscono l’élite più motivata, ad includere in un gruppo viepiù crescente tutti i docenti dell’Istituto: momenti di formazione tradizionale, attività di team building, seminari residenziali a carattere esperienziale, seminari di studio e produzione su temi individuati di volta in volta, a partire dalla conduzione delle riunioni e l’uso del tempo, all’organizzazione della scuola, delle classi e dei gruppi di aprendimento, all’articolazione del tempo scuola, al tema delle competenze del docente, ai processi di inclusione per gli alunni H e BES, fino alla definizione del Curricolo, alla progettazione della didattica, agli strumenti della valutazione e, perché no?, alla stesura di una Carta dei Valori che rappresenti e impegni l’Istituto nei confronti del territorio.
Ha a che fare tutto questo con la Buona Scuola di cui parla il documento posto dal Governo alla nostra attenzione? Credo di sì, ovviamente, perché riguarda il tema cruciale della formazione iniziale dei DS e della formazione continua dei docenti su cui il documento lascia intravedere delle importanti novità “di clima” senza tuttavia esplicitare in modo definitivo tempi e modalità di intervento evidentemente rinviati ai decreti attuativi. Ma è, prima di tutto, una questione di “cultura dirigenziale”, come già è stato osservato, che va costruita attraverso un percorso di formazione orientato allo scopo (nulla nasce per caso!) e non affidata alla buona volontà dei pochi che, questi magari per caso o come frutto di una ricerca del tutto personale, si imbattono in esperienze importanti che alla fine fanno la differenza. Ed è una questione di “cultura dell’autonomia” che deve coniugarsi, anche questo è stato detto, con una nuova cultura della responsabilità nei processi di autodeterminazione delle Istituzioni Scolastiche per evitare che si trasformino in microcosmi impazziti e autoreferenziali.
Bisognerebbe innanzitutto che si pensasse alla scuola come una organizzazione, centrata sulle persone direbbe Butera, direi addirittura come una microrete organizzativa che mutui dalla ricerca e dalla letteratura, abbondantemente prodotta su questo tema, modalità di lavoro e pensiero organizzativo per individuare, all’interno di ogni Istituzione Scolastica pienamente autonoma, i nodi da cui la rete è costituita (nodi individuali o collettivi, ma comunque nodi vitali, insiste Butera), i processi da presidiare, le strutture per governarla (che cosa dunque, se non la governance?). Conciliando, una volta per tutte, la struttura orizzontale del Collegio Docenti (in cui tutti sono alla pari di fronte ad un Dirigente ancora oggi poco più che primus inter pares), e tuttavia rigorosamente verticistica (solo il DS è responsabile dei risultati), con le esigenze di una organizzazione in cui ciascuno può ricoprire ruoli diversi (il docente sta in classe ma, contemporaneamente, può coordinare un Dipartimento disciplinare, collaborare in un altro Dipartimento, governare le azioni a favore degli alunni, presidiare un processo didattico o ancora…..) ma resta sempre il nodo vitale di una rete in cui il singolo (o il gruppo) interagisce costruttivamente con gli altri anche attraverso strutture consolidate, ciascuno intraprendente e autonomo quanto la normativa consente, in grado di presidiare i principali processi agiti in una organizzazione: progettare, pianificare, organizzare, valutare, documentare, pubblicizzare, individuare opportunità e risorse, anche finanziarie!
È un’idea ardita, e non ancora esplorata – se non in casi sporadici e isolati tra loro, che sottrae definitivamente le Istituzioni Scolastiche alla cultura degli adempimenti per inserirle a pieno titolo, attraverso una nuova cultura della responsabilità, nel mondo delle organizzazioni che apprendono: strutture organizzative capaci di generare pratiche volte a sviluppare conoscenze, competenze e routine per assicurare all’organizzazione stessa, una scuola certo diversa – ma possibile, la capacità di rispondere ad un mondo che cambia rapidamente. Immaginando di poter adattare al mondo della scuola teorie e pratiche nate per le imprese ma utilizzabili per tutte le organizzazioni e sempre che la scuola riesca a pensarsi come una “audace impresa” (ricordando Piero Romei che, fin dal ’89, pensava ad un nuovo modo di governare la scuola, “audace impresa” alla maniera ariostesca da vivere ogni giorno con lo spirito di chi si avventura verso terre tutte da scoprire) orientata alla formazione dei ragazzi che le sono affidati e in grado di pianificare anche la formazione dei docenti attraverso interventi che, facendo leva sulle conoscenze e sull’esperienza già maturata, introducano nuove abilità e nuove competenze, per i singoli e per il gruppo: in una parola per l’organizzazione che a poco a poco si costituisce come una comunità di pratiche e, allo stesso tempo,come una comunità educante.
Andrebbero inoltre create le condizioni, giuridiche certo – con gli interventi legislativi ormai da più parti sollecitati come indispensabili, ma non solo – trattandosi di temi che riguardano la vita delle comunità professionali la cui costruzione non passa certo attraverso le norme, perché ogni scuola possa organizzare e realizzare un progetto di auto sviluppo in modo che i nuovi docenti vengano affiancati e inclusi nella comunità esistente (potrà essere questo il ruolo dei docenti tutor, o dei mentor?) trasferendo nel tempo, da una generazione all’altra, il patrimonio di conoscenze e di competenze – didattiche e organizzative – che si sono gradualmente sviluppate.
Tutto questo per evitare che la storia di una scuola debba ricominciare all’inizio di ogni anno, e per consentire alle scuole di collocarsi sul territorio come punto di riferimento e di sviluppo sociale, come “luogo e soggetto di produzione della cultura” piuttosto che come semplice luogo di conservazione e trasmissione di una cultura cristallizzata dal tempo: una scuola che diventa, finalmente!, protagonista del cambiamento e volano di una ricostruzione sociale che, partendo dalla formazione dei più piccoli, sia caratterizzata da consapevolezza e lungimiranza, insieme ad una buona dose di coraggio che assuma il rischio di orizzonti imprevisti.
Occorre infine pensare al Dirigente come un leader piuttosto che come un semplice manager, con tutto il rischio che questa idea porta con sé: leader si nasce? o si può essere formati a svolgere questo ruolo? La scommessa è proprio questa: che i nuovi Dirigenti siano individuati a partire da competenze già maturate e documentate – utilizzando quel sistema di certificazione già acquisito nel mondo della formazione professionale – che possono derivare dall’esperienza pregressa, da percorsi non formali, dall’apprendimento informale nelle situazioni che appartengono alla vita della persona, selezionati con un processo che, fondato sul riconoscimento delle competenze esistenti e sulle potenzialità da far emergere, sia contemporaneamente orientato alle conoscenze indispensabili in tutti gli ambiti di esercizio dell’attività dirigenziale, formati attraverso una vera esperienza sul campo che dia spazio ad una visione di insieme, capace di riconnettere tutti i campi di azione e tutte le attività che si svolgono in una scuola.
È un’utopia pensare a tutto questo? No, è la prospettiva che nasce da una attenta analisi del documento proposto dal Governo con la concreta speranza che le azioni prossime venture trovino la forza di ricomporre il mosaico di un sistema quasi impazzito.