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La “buona scuola” e la buona formazione degli insegnanti

La “buona scuola” e la buona formazione degli insegnanti

di Alessandro Cavalli (Presidente del Centro Studi e Ricerche sui Sistemi di Istruzione Superiore dell’Università di Pavia e del Comitato Scientifico dell’Istituto IARD)

Contributo in risposta all’articolo “Per avere una buona scuola ci vuole una buona discussione”

Il documento sottoposto dal Ministero alla discussione pubblica è ampio e articolato. Non intendo segnalare i punti dove concordo o dove dissento, mi preme invece sottolineare un punto che ritengo prioritario e che non mi risulta sia stato al centro dell’attenzione degli estensori del documento.

Il documento sulla “buona scuola” insiste sulla “formazione in servizio” degli insegnanti e meno sulla loro “formazione iniziale”. Nel prossimo decennio, tuttavia, l’elevata età media del corpo docente attuale renderà inevitabile una accelerazione del ricambio generazionale nella scuola e quindi la formazione iniziale di nuovi insegnanti assumerà in ogni caso importanza strategica. Da quando sono state disattivate le SIS, la formazione prevede due momenti, il primo collocato nelle “facoltà” (oggi “dipartimenti”) universitarie a seconda della specificità disciplinare; il secondo collocato nella scuola nella forma del tirocinio. Sulla assoluta centralità del cd. tirocinio non dovrebbero esserci dubbi (i dubbi, caso mai, sorgono sui modi della sua realizzazione). Nessun dubbio, neppure, sull’esigenza della didattica disciplinare: è ora di finirla con la vecchia e sbagliata convinzione che basta sapere bene una qualsiasi disciplina per saperla anche insegnare. Sull’aggiornamento sui “contenuti” disciplinari, l’esigenza è molto minore: la ricerca di punta produce continuamente nuova conoscenza, ma non è necessario che gli insegnanti delle scuole siano aggiornati sulle frontiere della ricerca, o meglio, devono lavorare sul confine tra passato e presente, piuttosto che sul confine tra presente e futuro. La scuola deve aggiornarsi, ma non può seguire le dinamiche, spesso convulse, della ricerca. E’ chiaro che situazione varia da disciplina a disciplina.

Quello che rischia di restare ancora una volta escluso o trascurato nella formazione dei docenti riguarda alcune competenze trasversali (vale a dire, indipendenti dal settore disciplinare) della loro professionalità. Competenze trasversali la cui assenza è una delle carenze maggiori nel funzionamento della nostra scuola. Cerco di elencare, in ordine casuale, quelle che ritengo le competenze principali alle quali far riferimento:

a. saper collaborare ad azioni, iniziative e progetti comuni con altri colleghi della propria e di altre discipline; b. saper creare e mantenere in classe condizioni favorevoli agli apprendimenti; c. saper suscitare interesse, curiosità, motivazione ad apprendere; d. saper leggere la realtà socio-culturale di provenienza dei propri alunni/studenti; e. saper interagire/comunicare con le famiglie; f. sapere sostenere l’autostima anche di chi presenta difficoltà di apprendimento; f. saper distribuire premi e punizioni (ad esempio, voti) in base a criteri trasparenti di valutazione; g. favorire la cooperazione tra pari nei processi di insegnamento/apprendimento.

L’elenco, ovviamente, non è esaustivo, serve però per costruire il profilo del “buon insegnante”, il quale deve disporre di una buona dose di queste sette “competenze professionali” che vanno ben al di là della sua conoscenza disciplinare. Un eccellente matematico che non sappia lavorare in team, che non riesca a catturare per un tempo sufficiente l’attenzione dei suoi studenti, che non sia in grado di mantenere un livello accettabile di disciplina in classe, che non esplicita i criteri in base ai quali valutare gli apprendimenti, che non sappia interpretare successi e fallimenti propri e degli studenti, bene, anche un eccellente matematico sarà un pessimo insegnante di matematica.

Dove si formano queste competenze trasversali? Certamente durante il tirocinio. Ma il tirocinio moltiplicherebbe i suoi frutti se fosse preceduto e/o affiancato da alcuni insegnamenti che Aldo Visalberghi (tra gli altri) indicava come le “scienze sociali dell’educazione”. Sotto questa etichetta vi è un insieme di discipline socio-psico-pedagogiche, dalla psicologia dell’educazione e dei processi cognitivi, alla sociologia dell’educazione, alla pedagogia, all’etica pubblica. Intendiamoci, non intendo assolutamente proporre nuove figure professionali nella scuola. Non voglio nella scuola né uno psicologo che sappia “ri-abilitare” docenti in crisi di identità, né un pedagogista tutto fare che dia indirizzi in base a qualche filosofia educativa e neppure degli assistenti spirituali. Tutti gli insegnanti dovrebbero avere un minimo adeguato di formazione psicologica, sociologica, pedagogica e filosofica a prescindere dalla materia insegnata. Anche filosofica? Sì, come ambito nel quale si riflette sulla formazione di un’etica pubblica. Non so quanto possa servire un insegnamento di “educazione civica” per gli alunni e gli studenti di tutte le scuole, ma non ho dubbi che uno spazio di riflessione sull’etica pubblica sia indispensabile nella formazione degli insegnanti. La scuola è la prima istituzione pubblica che ogni donna e ogni uomo incontra, in ordine di tempo, nella sua vita, se la scuola non sa trasmettere, con l’esempio prima che con le parole, i fondamenti della convivenza civile, a soffrirne sarà la qualità della vita civile dell’intera società.

Scuola democratica
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