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Studenti stranieri tra difficoltà e successi

Studenti stranieri tra difficoltà e successi

di Fiorella Farinelli (Esperta di sistemi scolastici e formativi)

Nel recente convegno sull’integrazione dei migranti promosso dal Viminale1, due delle cinque sessioni di lavoro sono state dedicate alle politiche educative per gli stranieri adulti (“Piani regionali di formazione civico-linguistica”) e a quelle richieste da una popolazione scolastica sempre più plurietnica (“Scuola,contesto dinamico per le nuove cittadinanze”). Entrambe partecipatissime da funzionari delle prefetture, ministeri, regioni ed enti locali, dal privato sociale, da ricercatori e demografi, tutti convinti che è lì – nei sistemi educativi, e anche nell’intricata questione del riconoscimento dei titoli acquisiti nei paesi d’origine – che si dovrebbero giocare alcune partite decisive. Ma il Ministero dell’Istruzione, chissà perché, ha preferito non esserci, anche se delle sue politiche si trattava, e anche se siede tra i protagonisti al tavolo di programmazione dei fondi europei dedicati, il FEI e il FAMI2. Così la sua parte se l’è accollata, impropriamente, l’Osservatorio per l’integrazione degli alunni stranieri e per l’intercultura presso il Miur3, un organo di consultazione che in verità fatica a farsi ascoltare4. Emblematica in proposito la vicenda della “buona scuola”. Chi, nel tormentone degli ultimi mesi, non ha avuto occhi solo per precariato e presidi, si sarà certo reso conto che l’Osservatorio, dopo essere riuscito a far ammettere pubblicamente al ministro Giannini che il silenzio del primo documento sul tema degli studenti stranieri (più di 800mila, ormai, pari al 10% del totale, e in continua crescita) non aveva giustificazioni e che si doveva aggiungere uno specifico capitolo, non ha poi segnato significativi successi. Il solo risultato è stata infatti l’inclusione tra i 17 possibili utilizzi dell’ “organico funzionale” anche dei laboratori per l’apprendimento dell’italiano lingua2 nelle scuole a più alta presenza di studenti di altra madrelingua. Delle altre nove proposte avanzate, inoltre, nessuna è stata ripresa, pur nel profluvio di migliaia di emendamenti, dalla discussione sul ddl della Camera, e neppure dal cartello di sindacati e associazioni che ha dato vita al movimento degli oppositori.

Perché una disattenzione tanto trasversale ? Nel convegno se ne è discusso a lungo, come di uno dei risvolti più amari delle politiche – di ieri e di oggi – di governo dell’immigrazione. E del clima politico sempre più pesante ed ostile all’immigrazione che si vive nel paese. Sempre e soprattutto emergenza, mai lungimirante costruzione di un futuro comune. E però nella scuola ciò che prevale non è l’immagine, enfatizzata dai media e strumentalizzata dalla politica, di un’immigrazione come invasione disordinata e incontrollabile, e neppure come flusso di persone che bisogna solo aiutare e di cui bisogna provare a compensare i deficit. Non che non ci siano difficoltà con i ragazzi “ricongiunti” che arrivano nelle scuole senza una parola di italiano e disorientati da perdite e cambiamenti che ci vuole tempo ad elaborare. E con i minori non accompagnati carichi di sofferenze e di paure. Ma sono realtà circoscritte. Degli oltre 800mila studenti con background straniero, la maggioranza è ormai di bambini e ragazzi nati in Italia, o arrivati in età prescolare. L’equilibrio di genere, con l’eccezione di qualche comunità, è sostanzialmente analogo a quello degli studenti italiani, e le studentesse sono solitamente più brave, come da noi, dei coetanei maschi. Le scuole migliori, quelle capaci di interventi educativi bene organizzati ed efficaci, sono un luogo prezioso, se non di autentici processi interculturali, almeno di reciproca conoscenza tra le famiglie italiane e quelle di altri paesi, anche delle comunità più chiuse. Le seconde generazioni manifestano spesso una fiducia nell’istruzione come veicolo di mobilità sociale molto maggiore di quella degli studenti italiani. Le iscrizioni alla secondaria superiore hanno un buon trend di crescita e non sono poche, soprattutto per i nati in Italia, le esperienze scolastiche di successo. E’ arrivata finalmente al 23% la quota degli studenti stranieri che frequentano i licei, mentre quest’anno le iscrizioni al primo anno dei tecnici hanno superato per la prima volta quelle ai professionali. Nel passaggio all’università, è fortissima la propensione alle facoltà scientifiche, con quote di universitari provenienti dai tecnici e dai professionali molto superiori a quelle dei diplomati italiani. Sono “i successi” messi in luce dall’ultimo Rapporto ISMU-Miur, cui concorre la progressiva “stabilizzazione” di settori sempre più ampi dell’immigrazione. Ma l’integrazione è un processo lungo e complesso che non si fa da sé, richiede interventi mirati, continuativi, organici che ancora non ci sono o che non hanno mai una connotazione sistemica. E “le difficoltà”, infatti, sono ancora acute , e tali da mettere a rischio la scommessa – che passa soprattutto dalle seconde generazioni – dell’integrazione che serve per la costruzione di un futuro comune. Un quarto circa dei bambini tra 3 e 6 anni, per esempio, non frequenta le scuole per l’infanzia, decisive negli anni del primo sviluppo linguistico, sia per le difficoltà ad orientarsi tra comunali, statali, paritarie, sia per i costi di queste ultime. I ritardi scolastici, dovuti ad ingiustificati inserimenti in classi inferiori a quelle corrispondenti all’età e a un tasso alto di ripetenze, schizzano dal 16% della prima elementare al 67% della secondaria superiore incoraggiando gli abbandoni precoci. Sono ancora vistosi – determinati oltre che da condizioni socioeconomiche difficili anche da orientamenti scolastici contrassegnati da stereotipi – i fenomeni di segregazione formativa, con una netta sovrarappresentazione ( 15,5% ) degli studenti stranieri nei percorsi triennali di IeF. In numerose realtà scolastiche non ci sono, e non ci si occupa di formare, le competenze professionali per un insegnamento dell’italiano lingua2 come lingua per lo studio, e il trascinarsi di deficit linguistici irrisolti compromette l’apprendimento delle altre discipline. Il bilinguismo, spesso imperfetto, di chi a scuola parla una lingua e in casa un’altra, invece che essere visto come un vantaggio di cui sviluppare le potenzialità anche a favore degli studenti italiani, viene spesso trattato come un deficit insormontabile. Anche nelle comparazioni internazionali, la scuola italiana, che pure presenta non poche esperienze di eccellenza, appare nel suo insieme largamente impreparata a misurarsi con una realtà certamente diversa da quella di trent’anni fa e tuttavia sempre meno contrassegnata dall’emergenza. Mancano gli specialismi, i modelli organizzativi, le flessibilità necessarie. Forse anche perché, nel paese prima che nella scuola, non c’è ancora la convinzione che, complice l’andamento demografico italiano, quei bambini e quei ragazzi sono ormai parte strutturale, e sempre più numerosa, dei “nostri” giovani. Come se non si potesse accettare che anche da quello che gli consentiamo di essere e di diventare dipenderanno lo sviluppo economico, la coesione sociale, l’apertura al mondo globale del paese. Un riscontro di tutto ciò è evidente nell’inclusione da parte del Miur degli studenti stranieri nell’area dei BES – i bisogni educativi speciali – quasi che i deficit linguistici e i disagi dell’immigrazione dessero luogo ad handicap permanenti, curabili più con i dispositivi del “sostegno” che con esperti di glottodidattica, curricoli e valutazioni declinate, didattiche innovative e aperte ai processi di interculturalità, coinvolgimento delle famiglie, peer education. Tutte ricette che le scuole più impegnate sperimentano da tempo. Ma ci vogliono specifiche azioni politiche perché ciò che funziona diventi miglioramento sistemico. E’ qui, si sa, che la scuola italiana non ce la fa, non solo a proposito degli studenti stranieri.

Scuola democratica
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