Un romanzo di formazione. Intervista a Giuseppe Festa
a cura di Paola Benadusi Marzocca (esperta di editoria per bambini e ragazzi)
Doveva avvenire in presenza la 58° edizione della Fiera Internazionale del Libro per Ragazzi di Bologna, ma per ovvie ragioni avverrà anche quest’anno online dal 14 al 17 giugno prossimo. Non sarà per questo meno importante per l’attenzione che suscita nel mondo questo settore dell’editoria sempre più ricco di iniziative culturali, multimediale, di mostre e convegni di alto livello. All’insegna dell’ottimismo, della libertà, del divertimento, continua infatti inarrestabile il flusso di albi illustrati, graphic novel, testi di ogni genere pubblicati a ritmo battente. Tra questi il romanzo di formazione del naturalista Giuseppe Festa, già autore di libri interessanti quanto avvincenti sul mondo naturale e gli animali. Stavolta la storia che racconta, I LUCCI DELLA VIA LAGO (Salani, ill. Sofia Paravicini, pp.179, € 14,90) è ispirata alle avventure e ai giochi della sua adolescenza nel paesino di Predora sulle rive del lago d’Iseo, piccolo gioiello azzurro immerso in un oceano di verde. Giorni lontani e vicini come possono essere i ricordi dell’infanzia. Scritto in maniera coinvolgente e vivace in prima persona è un tuffo in un passato in cui la prospettiva della realtà quotidiana cambia con lo sguardo carico di forza sovversiva dell’adolescente di allora. Gli ho chiesto fino a che punto le avventure di Mauri con i suoi amici fossero autobiografiche.
“La trama e i fatti relativi a Brando sono inventati, ma il contesto e molti personaggi sono ispirati alle mie estati di bambino: dopo un anno trascorso in città mi scatenavo nel paesello dei nonni materni, sulle rive del Lago d’Iseo. La voce narrante, quella di Mauri, ho immaginato fosse quella del mio giovane zio (in realtà siamo quasi coetanei). Anche Fabi, il ragazzino che nel libro tutti chiamavo “il selvaggio” (o Orzowei, dal famoso telefilm) è ispirato a un altro mio zio, sebbene nella realtà non sia stato bocciato in prima elementare per aver liberato un fagiano in classe. Tuttavia, conoscendolo, so che se solo ci avesse pensato lo avrebbe fatto davvero.
Quelle estati hanno lasciato un segno profondo nella mia infanzia. I miei nonni erano custodi di un vecchio maniero in riva al lago, e con i ragazzi della via Lago ho vissuto delle avventure indimenticabili (e anche piuttosto spericolate, lo ammetto). Ovviamente, essendo un ragazzino di città (e di un paio di anni più piccolo degli altri) dovevo lottare con i denti per farmi accettare nel gruppo, ma la soddisfazione, alla fine, era maggiore. Poi, però, arrivava il momento di tornare a Milano e allora erano dolori. Una volta mi sono nascosto per mezza giornata in un cespuglio e a momenti ai miei non è venuto un infarto.”
-Rispetto ai tredicenni degli anni Ottanta, i ragazzi di oggi sono molto diversi o hanno elementi comuni a parte la giovane età?
“Me lo sono chiesto molte volte. Dal punto di vista sociale e culturale l’Italia degli anni ottanta non era così diversa da quella di oggi (se paragonata ai libri ambientati al tempo della guerra, per esempio) eppure il solco tracciato dall’avvento di internet e della telefonia mobile è profondissimo. Il modo di relazionarsi, di conseguenza, era meno virtuale e più diretto. Ma, soprattutto, credo che ai miei tempi i ragazzi avessero un grande alleato: la noia, nella sua accezione più positiva, cioè come motore potentissimo di creatività. Per esempio nell’inventarci i giochi per strada.
Ho l’impressione che i ragazzi di oggi, tra i mille impegni che hanno, non abbiano mai il tempo di tirare il fiato. E tutti i buchi, inoltre, vengono riempiti dalla consultazione compulsiva del telefono. Questo, inutile dirlo, non vale solo per i ragazzi ma anche per molti adulti, fra cui il sottoscritto. Una ragazzina che ha letto il libro mi ha chiesto se negli anni 80 i nostri genitori ci lasciavano più libertà perché c’erano meno pericoli. In realtà credo di no. Sono convinto che oggi ci sia più paura, non meno pericoli. E in più viviamo nel mito della sicurezza totale, dimenticandoci che il vivere ha in sé degli effetti collaterali, e se mettiamo i nostri figli sotto una campana di vetro non gli permettiamo di sviluppare gli anticorpi per affrontare le sfide della vita.”
-Pensi che gli adolescenti del 2021 si possano identificare con Mauri e i suoi amici?
“Dai primi commenti che mi sono arrivati, direi di sì. Valori come l’amicizia e l’amore travalicano qualsiasi epoca e gap tecnologico. E poi sono convinto che un ragazzo di oggi possa essere curioso di scoprire come comunicavamo a quei tempi, quando per chiamare un amico oltre l’orario consentito gettavi sassolini sulla finestra, o per uscire con gli amici saltavi fuori dalla stessa finestra, ti immergevi fino alla cintola nel lago e risalivi bello fresco in piazzetta (a Predore, con le case affacciate sull’acqua, era la normalità).”
-Quali autori hanno influito sulla tua formazione?
“Domanda molto difficile. Il libro che a 11 anni mi ha fatto scoprire la lettura è stato La mia famiglia e altri animali di Gerald Durrell. Me lo regalò la maestra Patrizia, assicurandomi che anche a un non lettore, com’ero io ai tempi, sarebbe piaciuto. E aveva ragione. Lo lessi per tre giorni di fila e mia madre arrivò a provarmi la febbre per capire se stavo bene o cosa. Ho amato molto anche Tolkien e la sua capacità di farti respirare il potere evocativo della Natura. Sono molto legato anche ai primi libri di Mauro Corona, in particolare Il volo della martora e Le voci del bosco. Ma l’elenco dei libri del cuore è davvero lungo.”
-Nei libri precedenti domina soprattutto il mondo della natura e gli animali. Qui c’è la magia del lago …
“I ragazzi della via Lago reali nascevano con il sedere nell’acqua. E crescevano sempre a mollo. Il lago dettava i giochi e le avventure, accompagnava amori e tragedie. Sì, anche quelle. E infatti il nostro rapporto con le acque del Sebino era di profondo rispetto. Il lago era come un amico un po’ scorbutico: se non sapevi come prenderlo, poteva giocarti dei brutti scherzi. Qualcuno, però, glielo abbiamo giocato anche noi, per esempio quando si pescava di frodo (lo so, ora i miei lettori faranno un salto sulla sedia). Ebbene sì, sono stato anch’io un piccolo bracconiere. A onore del vero, però, il nostro modo di pescare era più simile alla sussistenza. Si pescava solo quello che si mangiava, e a quei tempi ogni pesce extra era un aiuto al ménage familiare. Anche lì, però, il rispetto non veniva mai meno. La più grande lezione di sostenibilità me la diede mio nonno Tiberio, durante la mia primafrega delle alborelle. Questi piccoli pesci venivano a depositare le uova una volta all’anno, vicino a riva, dove si sfregavano la pancia sulla ghiaia del fondo (oggi, purtroppo, a causa dell’inquinamento la frega non avviene più). Allora arrivavano a milioni, così tanti da oscurare il fondale. La pesca era vietatissima, ma mio nonno ci andava ugualmente, di notte. La prima volta che mi ha portato avrò avuto sette anni. Lanciò una piccola rete e dopo un minuto avevamo già riempito mezzo secchio. Io ero gasatissimo, mi aspettavo di pescare tutta la notte. Invece lui mise via tutto e tornammo a casa. «Basta così, per noi è più che sufficiente» disse. «Il resto lo lasciamo al lago».”
-Qual’è stato l’evento che ha segnato la transizione della tua vita da una fase all’altra?
“Sicuramente un’esperienza di volontariato al Parco Nazionale d’Abruzzo quando avevo vent’anni e la strada da seguire era quanto mai nebulosa. Durante la prima notte al Parco, un’orsa confidente venne a grattare alla porta della legnaia. Un grande spavento, poi diventato amore per questi animali. Fui ispirato dal lavoro dei guardaparco, dei ricercatori e degli educatori ambientali, a tal punto che, tornato a casa, cambiai università: da Ingegneria a Scienze Naturali. Quell’esperienza, inoltre, ispirò il mio primo libro, “Il passaggio dell’orso””.