Una Buona Scuola per gli insegnanti?
di Luciano Benadusi (direttore di Scuola Democratica e Learning4)
contributo in risposta all’articolo “Per avere una buona scuola ci vuole una buona discussione”
Il documento governativo su “La buona scuola” sembra volersi proporre come un programma generale di politica scolastica ma in realtà fissa il suo baricentro sui processi che la teoria organizzativa chiama “accessori” o “strumentali” – soprattutto il reclutamento, lo sviluppo professionale e le retribuzioni dei docenti, ma anche aspetti riguardanti i dirigenti e la governance. Mentre, con l’eccezione dell’alternanza e dell’integrazione scuola-lavoro, affronta in modo più frammentario e residuale le questioni relative al processo fondamentale, che nel caso della scuola è l’erogazione del servizio agli studenti. La scelta di priorità per i processi strumentali, e in particolare per gli insegnanti, può essere giustificata data l’eccessiva preminenza accordata in passato alle riforme degli ordinamenti didattici e dei curricoli, sempre però che non porti ad eludere una serie di questioni importanti rimaste aperte anche in questi ambiti. Tuttavia, qui mi occuperò solo delle linee riguardanti il personale insegnante, cominciando con l’esprimere condivisione su alcuni orientamenti di fondo: una gestione che premi il merito piuttosto che l’anzianità, maggiore flessibilità di utilizzazione grazie al ritorno dell’organico funzionale e al potenziato ruolo delle reti interscolastiche, l’ampliamento dell’autonomia degli istituti per riprendere la costruzione di una nuova forma di governance rimasta ancora incompiuta. Ciò detto, porterò l’attenzione su quattro punti che considero critici, cioè bisognosi di approfondimento o di correzione.
La prima questione su cui a mio avviso è da effettuare un’importante correzione, del resto sollecitata da molti nel corso della consultazione promossa dal MIUR e sul nostro blog in particolare da Fiorella Farinelli (vai all’articolo), è quella dell’immissione in ruolo automatica dei circa 150.000 iscritti alle GAE. Una questione importante perché si tratta della misura finanziariamente e politicamente più rilevante di tutto il programma e perché se ne è contestata l’incoerenza con l’orientamento meritocratico proclamato più di una volta dal documento. Nonché con la logica dell’efficienza, che richiede di subordinare la ruolizzazione di una così ingente massa di docenti alla verifica dell’attitudine a soddisfare reali bisogni. Ai rilievi critici è stato risposto che una siffatta decisione ci viene imposta dalla sentenza della corte europea di giustizia relativa appunto all’assunzione dei lavoratori precari della scuola. E che servirà altresì a superare il nefasto fenomeno del ricorso al personale non di ruolo per coprire le supplenze con il conseguente ininterrotto riprodursi della piaga del precariato. Né l’uno né l’altro degli argomenti appaiono però del tutto convincenti. Solo una parte – vi è chi ipotizza i due terzi, chi ancora meno – degli iscritti alle GAE può infatti essere considerato davvero un lavoratore precario della scuola, nel significato più plausibile e che si evince dalla stessa sentenza. Non lo è chi non ha mai insegnato o chi lo ha fatto solo sporadicamente e per spezzoni di tempo così limitati da non permettere l’equiparazione della loro posizione con quella del personale di ruolo. E nemmeno può essere considerato un precario della scuola statale chi insegna da precario nella scuola paritaria. Inoltre, la mancata verifica della corrispondenza qualitativa (cioè per disciplina e per area geografica) fra gli iscritti alle GAE e i bisogni prevedibili di supplenza potrebbe comportare la persistenza del ricorso a docenti precari, estratti dalle graduatorie di istituto. Insomma, sembra opportuna un’accurata analisi della posizione degli iscritti alle graduatorie permanenti che porterebbe a ridurre l’ampiezza di questa operazione di inserimento ope legis e permetterebbe di accrescere al contempo la quota delle immissioni tramite concorso. E stabilire così un maggiore equilibrio fra le due modalità di accesso ai ruoli.
Un secondo punto critico, affrontato sul nostro blog da Giunio Luzzatto (vai all‘articolo), ha a che fare proprio con lo snodo tra formazione iniziale e reclutamento tramite concorso. Il dissenso riguarda qui non una proposta del documento bensì l’assenza di essa, che significa rinunciare alla modifica dell’attuale ordinamento risalente al deprecabile decreto Gelmini. Questo, arretrando rispetto all’esperienza delle SISS, ha rimesso al primo posto le competenze sui contenuti delle discipline a danno delle competenze didattiche, vuoi disciplinari vuoi trasversali, le quali come giustamente ci ha ricordato nel suo intervento sul blog Alessandro Cavalli (vai all’articolo), sono oggi le più carenti. Una volta acquisito giustamente il coinvolgimento dell’università nella formazione dei docenti per tutti i livelli del sistema di istruzione, si deve ora evitare la deriva dell’accademicismo, che implica distacco fra pratica e teoria ed auto-referenzialità disciplinare. Dopo la laurea triennale gli studenti desiderosi di avviarsi alla carriera di insegnante dovrebbero perciò non essere indirizzati ad un normale corso di laurea magistrale di taglio accademico tradizionale bensì ad un apprendistato di alta formazione della durata di un biennio, che in omaggio alla interdisciplinarietà ed all’integrazione teoria-pratica dovrebbe essere gestito da centri universitari inter-dipartimentali ed in partnership con la scuola. La stretta connessione da instaurare tra formazione professionale iniziale e concorso esigerebbe poi che gli accessi a questo percorso fossero programmati con numeri tali da garantire il reclutamento.
Per quanto numerosi, i nuovi ingressi non potranno da soli introdurre nel sistema quel fattore di spinta verso il miglioramento e l’innovazione dei processi didattici del quale si avverte il bisogno, si dovrà perciò far leva in parallelo sullo sviluppo professionale e gli incentivi per gli insegnanti già in servizio. Il documento su “La buona scuola” non prefigura un sistema di incentivazione basato su una vera e propria carriera di tipo organizzativo, il che implicherebbe una diversificazione stabile di ruoli e di livelli, come nel progetto di legge Aprea sullo stato giuridico. Prevede solo degli scatti retributivi, una volta si diceva conferiti “per merito distinto”, i quali insieme alle indennità temporanee di funzione andrebbero a formare un sistema di tipo fluido e premiale. Il più adatto, a mio avviso, per una fase di transizione da una struttura monolitica della professione ad una verticalmente ed orizzontalmente differenziata. Come concretizzare questa scelta rappresenta però un altro tema critico da approfondire.
Il dispositivo di valutazione/incentivazione delineato poggia su tre gambe: i crediti formativi, professionali e didattici. La obbligatorietà della formazione continua, che il documento propone, è una scelta condivisibile sempre che si metta ordine in un campo dove gli standard di qualità si mostrano spesso largamente insufficienti soprattutto dal punto di vista dell’impatto della formazione sul miglioramento delle pratiche di insegnamento, e dove il meccanismo previsto dal documento rischia di suscitare una corsa ai bollini per ottenere in premio gli scatti stipendiali. Prima di accreditare i frequentanti occorrerebbe allora accreditare i corsi, e farlo a più livelli: singolo istituto o rete, regione e, per pochi corsi qualificabili di eccellenza, il livello nazionale. Quanto all’assegnazione dei crediti professionali bisogna, come sostiene l’ANP, verificare che i compiti aggiuntivi extra-aula siano stati non solo svolti ma svolti con impegno, perizia e buoni risultati. Infine per i crediti didattici, delle tre gambe in teoria la più importante, va sgombrato il campo dall’equivoco della valutazione “oggettiva” mediante i test di apprendimento degli studenti, e fino a quando l’attuazione del regolamento nazionale di valutazione non renderà possibile una valutazione di processo effettuata su basi empiriche, ci si dovrà accontentare, di un approccio di natura meramente reputazionale, malgrado i suoi limiti. E’ evidente comunque – curioso che il documento ometta di dirlo – che spettando al dirigente scolastico un ruolo primario nell’attività di valutazione dei docenti a lui dovrebbe essere attribuita la presidenza del nucleo di valutazione di istituto.
Un quarto ed ultimo punto critico su cui intendo soffermarmi attiene alla governance dei processi di allocazione alle scuole degli insegnanti, in fase sia di reclutamento che di mobilità. Qui si confrontano due modelli: uno tradizionale di tipo burocratico che procede dall’alto verso il basso e uno che potremmo definire di quasi-mercato (seppure interno al settore pubblico) in quanto si basa sull’incontro fra la domanda (delle singole scuole) e l’offerta (dei singoli docenti). Il documento governativo introduce per la prima volta il secondo modello per quanto riguarda la mobilità, ma solo in relazione all’organico funzionale, mentre per il resto, compresa l’assegnazione di cattedre ai precari stabilizzati, sembra invece non discostarsi dal modello tradizionale. Altri, come Confindustria e ANP ma con la contrarietà dei sindacati di categoria, propendono invece per il primo modello. Sono poi state affacciate soluzioni intermedie, per esempio dalla Fondazione Agnelli e in modo diverso dal progetto di Andrea Ichino, che prevedono di concedere un grado maggiore di autonomia, anche in materia di scelta dei docenti, agli istituti che ne facciano richiesta e abbiano dimostrato di meritarsela per la qualità dei loro processi e risultati.
La mia opinione è che alcune forme di regolazione top-down (cioè a livello nazionale e/o regionale) rimangano necessarie anche entro uno scenario di decentramento. Ad esempio, la distribuzione fra le scuole dei nuovi insegnanti provenienti dalle GAE dovrebbe essere effettuata sulla base di una programmazione sistemica che tenga conto di bisogni riconosciuti essenziali, quali la copertura di posti vacanti, lo sviluppo del tempo pieno e prolungato, la prevedibile incidenza delle supplenze, la quota di studenti immigrati. Egualmente, nelle allocazioni per mobilità non ci si dovrebbe interamente affidare al libero incontro fra le preferenze dei singoli docenti e quelle dei singoli istituti. Una politica scolastica che intenda perseguire insieme qualità ed equità dovrebbe mettere in campo incentivi (aggiuntivi rispetto a quelli ordinari destinati ogni tre anni ai due terzi dell’organico docente degli istituti) per indurre buoni insegnanti a trasferirsi per un congruo lasso di tempo presso scuole in difficoltà, spesso situate in contesti socio-culturali anche essi difficili. Tale incentivazione potrebbe talora assumere un carattere olistico, nel senso di favorire accordi di cooperazione fra scuole di qualità e scuole in difficoltà, finalizzati al miglioramento della qualità di queste ultime. Analoghe azioni di mobilità incentivata mirata andrebbero messe in campo per agevolare il propagarsi di esperienze di innovazione e di sperimentazione. Insomma, a mio parere, la scelta dei docenti da parte delle singole scuole può essere una soluzione opportuna, in quanto utile per sfruttare maggiormente il potenziale dinamico dell’autonomia, a condizione però di inserirla in un quadro regolativo di tipo misto, non soltanto di quasi-mercato. Un quadro che dovrebbe comprendere forme di valutazione ex post del buon uso della facoltà di scelta, allo scopo di prevenire, nella misura del possibile, distorsioni di natura particolaristica e clientelare e vietare le vere e proprie discriminazioni, cioè scelte dettate da motivi (espliciti o impliciti) illegittimi, ad esempio affinità religiose, etniche, politiche, sessuali. Il bando ad ogni specie di discriminazione dovrebbe infatti rappresentare per la scuola pubblica, a differenza della scuola privata anche di quella “paritaria”, un elemento costitutivo della loro identità e dunque un requisito legalmente ed eticamente ineludibile.
Infine, una notazione di carattere più generale. Quando si parla di “buona scuola” non si può evitare di domandarsi cosa faccia “buona” una scuola. Nel documento governativo manca un’enucleazione esplicita dei valori e delle finalità cui la scuola dovrebbe tendere ed a cui le proposte presentate si ispirano. Fra le righe si nota un’enfasi su concetti quali merito, qualità, lavoro, innovazione anche tecnologica, a fronte di una certa assenza di riferimenti a concetti quali equità ed eguaglianza che pure sono oggi al centro dei discorsi sulle policy in molti paesi occidentali, compresi gli Stati Uniti, ed anche presso la Commissione europea e influenti organismi internazionali quali l’OCSE. L’equità, nella sua duplice accezione di inclusione e di eguaglianza delle opportunità, dovrebbe, insieme alla qualità, formare il binomio valoriale di sfondo per la politica scolastica italiana: una “buona” scuola non può non essere anche una “scuola giusta”.